Anna è un’artista indipendente nata nel 1988 a Gravedona, sulle sponde del Lago di Como. Fin da piccola sviluppa una naturale inclinazione verso l’arte manifatturiera, coltivata con istintività e passione. Dopo il diploma in Industrial Design conseguito nel 2007 presso l’Istituto Statale d’Arte di Cantù, sceglie di non intraprendere studi universitari, ma continua a nutrire la propria ricerca artistica in parallelo all’attività lavorativa. Il legame con la tradizione famigliare la porta a reinterpretare la scena della Natività in chiave personale, utilizzando materiali di recupero come il polistirolo, trasformato in paesaggi realistici attraverso un processo di intaglio, stuccatura e pittura acrilica. Negli anni, il suo interesse si concentra sull’alluminio riciclato da cialde di caffè e lattine, attratta dai colori brillanti e dalle possibilità espressive offerte da questo materiale. Il concetto di sostenibilità e l’upcycling diventano tratti distintivi del suo lavoro. Le sue opere nascono da impulsi concettuali che affronta con grande sensibilità e un approccio totalmente istintivo: non esistono bozzetti o misurazioni, ma una creazione diretta, libera da vincoli progettuali, in cui l’imprecisione diventa valore e simbolo di libertà. Ogni opera è un pezzo unico e porta con sé un messaggio utopico. Dal 2015 lavora come assistente in studi legali nell’hinterland milanese, un contesto che, seppur distante dall’arte, si rivela sorprendentemente fertile per l’osservazione umana e l’ispirazione creativa. Recentemente ha partecipato alla Milano Design Week con un oggetto in mostra nella collettiva organizzata da Superstudio, sul tema della felicità.
Cos’è per te l’arte?
L’arte è moltissime cose, ma se volessi riassumerla in poche parole, direi che è un ‘messaggio di stupore’. Io non ho mai fatto della mia arte una professione, se non per qualche commissione; dunque, ritengo di essere rimasta piuttosto ‘libera’ da schemi prefissati e scadenze. È forse per questo che alcune volte mi stupisco di un’idea che viene dal nulla o riesco ancora a sperimentare con ingenuità e leggerezza. L’arte è un veicolo stupendo, con il quale cerco di dare una risposta soprattutto a me stessa rispetto ad alcuni temi che altrimenti non saprei spiegare. Così come la intendo io, l’arte è saper accogliere con meraviglia.
In che modo la tua esperienza professionale in ambito legale ha influenzato la tua visione artistica?
Ho conosciuto molti avvocati in questi ultimi dieci anni; inizialmente ricordo che sentivo letteralmente un pesce fuor d’acqua. Io che arrivavo dalla provincia, abituata a contesti socialmente più intimi… mi sentivo come l’Uomo di Neanderthal approdato in città. Trovavo questa categoria spocchiosa e classista; mi chiedevo ogni giorno in che modo mi avrebbe arricchita quella che per me evidentemente era un’esperienza passeggera. Trascorso il primo anno (che per utilizzare un eufemismo definirei infernale per la mia assoluta inesperienza), mi sono resa conto che in quelle figure così distanti da me, c’era una componente artistica spiccata: si trattava di arte oratoria. L’arte della parola e del saper difendere il proprio assistito. Un diritto inviolabile che, visto da dietro le quinte, assume un significato davvero immenso. In un mondo frenetico e super evoluto, io sono certa che ad oggi ognuno sia concentrato su di sé. Come il gatto all’interno del proprio cerchio non ne esce perché quel limite è confortante, così anche noi creiamo un limite verso gli altri. Può sembrare poco attinente, però il principio è proprio quello di una comunità che a livello comunicativo si è persa totalmente. Si preferisce l’omertà perché ormai abituati alla violenza, dunque ascoltare o consigliare è considerato un ‘rischio’. Nessuno se ne prende più la briga. L’avvocato in tutto ciò è una figura che funge da pilastro quanto meno per quanto riguarda il diritto di essere difeso. Dall’altra parte troviamo le storie delle persone, sempre più sole. La domanda che sempre più spesso mi pongo è: chi suona più il campanello del vicino perché ha finito le uova?… viviamo l’epoca della solitudine emotiva. Perciò a parere mio, l’arte – in qualsiasi forma – è rimasto l’unico strumento in grado di lanciare allo spettatore uno stimolo di riflessione benefico; credo sia inesauribile nei secoli, sia in grado di adattarsi all’evoluzione naturale della società e per questo motivo eternamente indulgente con le persone.
Cosa ti spinge a scegliere materiali di recupero come l’alluminio delle cialde o il polistirolo per le tue opere?
Il materiale è il fulcro delle mie creazioni; ne ho sperimentati un’infinità. Sin da bambina, ho sempre avuto una certa attrazione per i materiali e per la costruzione manuale di oggetti; mi rivedo all’età di nove anni, mentre con due pezzi di legno in croce mi ingegno e costruisco un rudimentale telaio per realizzare i famosi bracciali in voga all’epoca. Per me non è mai stato soltanto eseguire meccanicamente un determinato lavoro, bensì entrare in contatto con gli strumenti e capirne la funzione; così con il polistirolo, che recuperavo in pannelli dagli scarti di una ditta di imballaggio; o la schiuma poliuretanica per coppi (ho realizzato delle montagne bellissime in alcuni presepi). Se mi si rompe una gruccia, diciamo che non mi viene istintivo buttarla. Ci sono infiniti materiali che mi affascinano, ma attualmente trovo che sia un connubio perfetto quello tra il filo di ferro, esile e resistente, l’alluminio dai mille colori luminosi e il legno, robusto ma al contempo accogliente. Mi piace l’idea di dare una nuova forma a ciò che la maggior parte di noi considera ‘uno scarto’ o qualcosa che ‘ha terminato il suo percorso’. Io sono sempre per le seconde opportunità, sia nella vita che nella mia arte. Mi sembra di riscattare quel qualcosa a cui nessuno dà importanza.
Quanto conta per te l’istintività nella creazione rispetto alla progettazione razionale? Cosa significa per te l’imperfezione in un’opera d’arte?
Mi torna alla mente il senso di frustrazione che provavo a scuola, quando si trattava di rispettare una scadenza per la consegna di un progetto; la mia mente si svuotava completamente e la mia creatività lasciava spazio allo sconforto. E così finivo per consegnare, entro i termini stabiliti, un lavoro mediocre. Cinque anni di torture, nei quali mi chiedevo se davvero avessi scelto un indirizzo capace di mettere in mostra le mie qualità. Evidentemente non avevo gli strumenti adeguati a rapportarmi in quel determinato contesto. Mi sono sempre sentita uno spirito libero, ma certamente tra squadre e riga a T non mi sentivo in grado. Così, sebbene riconosca l’importanza che ha avuto la formazione tecnica, ho finito per odiare tutto ciò che riguarda la misura; perciò, in tutto quello che faccio, parto sempre dal mio ‘fiuto’. Se penso che la proporzione sia corretta, non ritengo che la perfetta simmetria sia necessaria. È chiaro che lavorerei con più precisione utilizzando degli ‘strumenti guida’. Ma l’effetto, secondo me, sarebbe quello di una bellezza ordinaria. E in fondo nemmeno in natura la ritroviamo, ma comunque riteniamo che non ci sia nulla di più geniale di ciò che nasce in maniera naturale. Quindi l’istinto mi guida a creare in maniera assolutamente voluta, opere imperfette; è un modo per avvicinare me e lo spettatore ad una bellezza naturale, ma non per questo grossolana.
In che modo il concetto di “utopia” entra nei tuoi lavori?
L’utopia nient’altro è che un ideale etico, che ha una funzione ben precisa: stimolare positivamente le persone e dar loro un modello giusto – anche se non sempre realizzabile forse inconsciamente l’ambito lavorativo, ancora una volta, mi stimola nella ricerca di un messaggio. Nella pratica direi che si tratta di un insieme di visioni. Al centro di ogni mia creazione, c’è appunto un concept; non faccio nulla di particolare, se non, mettere figurativamente il tema al centro di una bacinella, coprirla con un canovaccio e aspettare che lieviti. In sostanza da un determinato concetto, inizio a ricevere immagini inattese e differenti, che poi unisco manualmente. Può anche passare del tempo e intanto mi dedico ad altro (la fortuna di chi non lo fa di professione, altrimenti credo sarei già morta di fame). Nello specifico, io trovo il ‘modo’ di unire le varie ‘visioni’; alle volte non ne esce nulla di buono… anzi, volendomi mettere a nudo, ho perso il conto di quante volte ho detto ‘che idea meravigliosa!’ per poi cestinare tutto. Però ciò che per me realmente conta è che io per prima, di fronte al risultato finale, possa percepirne il messaggio implicito.
Hai mai pensato di estendere la tua ricerca artistica ad altri materiali o tecniche?
Io sono sempre aperta a ciò che la natura – non solo – può offrirmi in termini di ispirazione. Non si tratta di ricerca artistica, ma piuttosto di apertura. La mia vita è composta da capitoli, alcuni più duraturi di altri; ogni volta mi innamoro di un’idea, una tecnica o di un materiale senza alcun preconcetto. Quindi sono certa che questa curiosità non si placherà.
Cosa ti ha lasciato l’esperienza della Milano Design Week, anche in relazione al tema della felicità?
Diciamo che mi sono sempre nascosta nella mia confort-zone; per me questi ultimi mesi sono stati emotivamente difficili e allo stesso tempo entusiasmanti. A novembre dello scorso anno ho preso coraggio e, dopo svariati solleciti da parte di amici e parenti, grazie al supporto di una cognata speciale, è nata la pagina IG dedicata alle mie creazioni. Dopo qualche tempo, ho ricevuto questo invito per esporre in Superstudio, in una collettiva dedicata al tema ‘Happiness’. L’estate precedente avevo realizzato le ‘Provette della Felicità’ e la mia selezione al progetto è avvenuta proprio perché è stata notato il post sulla pagina social. Il progetto mi è da subito sembrato interessante, perché si trattava di uno spazio espositivo pensato come ‘Cantiere della Felicità’ dove ogni artista portava il proprio oggetto della felicità e lo metteva n contato diretto con gli altri. Ho pensato a come rendere ancora più significativo il mio lavoro e ho immaginato una provetta che contenesse la parola ‘Good Vibes’ quale seme dal quale far germogliare il fiore; e poi ho pensato a cosa significa scegliere la felicità, nonostante gli ostacoli. Quindi ho costruito una gabbia. Il mio fiore riesce ad ‘evadere’ dalla gabbia in cui è costretto, supportato dal pensiero positivo. Direi che questa esperienza mi ha arricchita dal punto di vista umano e artistico, ho conosciuto molti artisti e designers e con la mia solita curiosità mi sono avvicinata al loro mondo; è un regalo immenso poter conoscere la storia di chi, come me, crede in quello che fa.
La tua arte sembra avere una forte componente simbolica: quali sono i messaggi che cerchi di trasmettere?
Quando la vita è un contenitore di eventi fugaci, disordinati e alle volte imperfetti, io cerco di semplificarli con la mia manualità. Ad esempio, se penso che attraverso il pensiero positivo qualche cosa della vita possa migliorare, mi ritrovo a immaginare delle parole positive in una provetta e dalla stessa vedo nascere un fiore. Così è nata l’idea delle mie ‘Provette della Felicità’. È chiaro che non ci troviamo in un laboratorio e la felicità non è un prodotto di fabbrica, però ritengo che certe volte sia necessario idealizzare la realtà – che è molto più cruda. Credo che la mia volontà sia stemperare, alleggerire e semplificare un’immagine, che altrimenti, risulterebbe meno sopportabile. Io spero che arrivi principalmente un messaggio, che è un po’ il collante di ogni mia creazione, ossia la libertà: libertà di essere ciò che siamo, con le nostre passioni, i nostri sogni e le nostre fragilità.
Quanto pesa, nella tua pratica, il legame con la tradizione familiare?
Parto col dire che la famiglia per me è rifugio, protezione, radici. Non ho mai staccato completamente il cordone ombelicale e sinceramente non me ne vergogno; ci sono tre pilastri nella mia vita: mia mamma, mia sorella e la mia zia paterna. Loro sono la mia storia e da loro spesso prendo spunto. Da mia mia mamma ho acquisito due doti naturali: il pollice verde e il gusto per il bello in generale… ma ciò che mi ha insegnato più di ogni altra cosa, è la generosità. Io e mia sorella siamo totalmente opposte ma ci accomuna il lato creativo; ho sempre invidiato la sua manualità nel disegno e nell’uso dei colori, soprattutto gli acquerelli. Lei, sorella maggiore di sei anni, mi ha insegnato cos’è la libertà e l’autonomia. Da mia zia, ‘gattara’ come me nonché ottima cuoca, ho acquisito una dote: l’accoglienza. Lei ha sempre fatto in modo che la tavola fosse completa… di persone si intende; attraverso lei ho imparato che, nel dubbio, bisogna festeggiare! Basti pensare all’importanza che ha per me la Natività; ritengo che questo tema sia stato il filo conduttore della mia intera esistenza. Sicuramente all’inizio si trattava di una passione tramandata dalla mia nonna paterna, ma crescendo, mi sono resa conto che forse a quella scena davo un valore molto più personale. Ogni anno ricreavo un contesto nuovo, all’inizio utilizzando il muschio che raccoglieva mio nonno, poi aggiungendo qualche scatola per creare le colline, fino ad arrivare ad utilizzare il polistirolo e lo stucco… infine le mie più recenti miniature realizzate utilizzando le cialde di caffè riciclate. In passato ho fatto decine di presepi che sono stati poi regalati; pure sacrificando tutto il lavoro fatto l’anno precedente, io ripartivo più o meno da zero… forse è proprio questo il senso del Natale: essere pronti a rinascere. Per rispondere alla domanda: la tradizione è al centro della mia vita e sicuramente influenzerà anche in futuro il mio percorso artistico
Come immagini il futuro del tuo percorso artistico, tra lavoro, sostenibilità e creatività?
Non amo darmi delle regole e delle scadenze, per natura lascio che siano gli eventi a guidarmi. Certamente mi piacerebbe in futuro, poter partecipare ad altre collettive o, perché no, tra qualche anno, poter esporre le mie opere in autonomia. Continuerò a meravigliarmi dei materiali in disuso e a dar loro quella seconda possibilità. Certamente resta faticoso coniugare il lavoro (la vita reale) alla mia passione, perché tutto richiede un tempo… ma il futuro è di chi crede nei propri sogni.
Descriviti in tre colori.
Il verde che indica la speranza, il bianco simbolo di quell’equilibrio perfetto al quale ambisco e infine il viola quale combinazione di energia e calma, due fattori opposti ma complementari.






Splendida Anna!! Bravissima e anche saggia!