Francesco è un artista visivo e performer nato a Pistoia nel 1991. La sua formazione prende avvio dal teatro, con il diploma in recitazione e arte del palcoscenico presso Laboratorio9 a Firenze, seguito da una laurea in DAMS presso l’Università degli Studi di Firenze. Dopo aver abbandonato l’attività teatrale nel 2014, si dedica esclusivamente alla pittura, intraprendendo un percorso di ricerca artistica in continua evoluzione. Nel corso degli anni, Calistri affianca lo studio accademico – tra cui l’esperienza alla Scuola Libera del Nudo dell’Accademia di Belle Arti di Firenze e l’iscrizione alla prestigiosa Brera di Milano – a un’intensa attività di viaggio e sperimentazione. L’incontro con altre culture, soprattutto nel bacino del Mediterraneo e nei suoi soggiorni in luoghi come Cuba, Maiorca, Londra e il Nord Africa, alimenta una ricerca visiva che si nutre di alterità, archetipi e ritualità collettive. Attraverso un linguaggio che unisce pittura, gesto e memoria, l’artista esplora i legami tra corpo, paesaggio e identità, indagando anche le connessioni tra arte e neuroscienze, interesse che lo conduce al conseguimento di un master in neuroscienze, mindfulness e pratiche contemplative nel 2025. Dopo aver sperimentato per un periodo sotto lo pseudonimo Hirdilak, torna a firmarsi con il proprio nome, in un gesto di riconciliazione e autenticità che riflette la sua evoluzione personale e artistica. La sua pratica è il frutto di un percorso nomade e introspettivo, che fa della trasformazione e del dialogo con l’Altro i suoi fulcri vitali.
Cos’è per te l’arte?
L’arte mi è difficile definirla ma essa per me sicuramente riguarda l’osservare, conoscere la propria coscienza e esprimere la vita… l’arte ha molto a che fare con il modo di percepire, con il modo di vivere la vita. Per me l’arte è una pratica necessaria e liberatoria.
In che momento hai sentito con chiarezza che la pittura sarebbe diventata la tua unica
occupazione?
Quando finite le varie scuole e esperienze teatrali ho capito che se fossi voluto andare più in profondità con una pratica artistica avrei dovuto farla tutti i giorni con impegno, doveva essere un lavoro costante. Non volevo “dissiparmi” altrove, volevo dipingere da mattina a sera, la pittura si impadroniva del mio tempo, e allora ho salutato il teatro, lasciato la recitazione, le performance, la possibile carriera universitaria…e voilà sono già passati 10 anni a dipingere!
Come il passaggio dal teatro alla pittura ha trasformato il tuo modo di raccontare il mondo?
In un certo senso mettendomi in disparte, sul palco sei in prima linea ti puntano la luce addosso, con la pittura invece sei nell’ombra e lavori sulla luce. Prima per raccontare il mondo usavo il corpo, le parole, ora se racconto creo un mondo con un’immagine.
Cosa rappresenta per te il viaggio: fuga, esplorazione, ricerca, o qualcosa d’altro?
Si, sicuramente rappresenta tutto questo fuga, esplorazione, ricerca ma anche curiosità, libertà, possibilità di uscire dai propri schemi, dalle proprie abitudini mentali. Il viaggio dà l’opportunità di ampliare i propri orizzonti, punti di vista, prospettive. Viaggiare è non far ristagnare l’acqua.
Qual è il segno più evidente che luoghi come Cuba o il Marocco hanno lasciato nel tuo linguaggio visivo?
Più evidente nel linguaggio visivo non lo so, direi alcuni ritratti di persone che ho conosciuto,
alcuni accostamenti di colori o scelte di soggetti, ma non credo che ciò basti per rendere vivide alcune immagini, atmosfere, sonorità che mi sono rimaste impresse… Forse fra una decina di anni riuscirò a capire meglio certe trasformazioni, che tuttora agiscono.
Cosa hai cercato di lasciarti alle spalle abbandonando il nome d’arte Hirdilak?
Il fatto che nessuno si ricordava né pronunciava bene il mio nome e inoltre una volta un amico mi ha fatto notare che non c’è niente di più internazionale di un cognome italiano! Scherzo, in realtà dopo più di 10 anni che mi firmavo con uno pseudonimo, ho voluto riappropriarmi del mio cognome, come un modo per essere più vicino alla mia famiglia.
In che modo lo studio delle neuroscienze e della mindfulness ha modificato la tua pratica artistica o il tuo sguardo sulle immagini?
Più che le neuroscienze e la mindfulness, sono lo studio del buddhismo e la pratica della
meditazione che mi hanno fatto ampliare, modificare lo sguardo su come appaiano e esistono le cose… La pratica artistica può agitare molto la mente, e una mente confusa non legge bene né tantomeno vede bene le immagini che ha davanti. Dunque, il buddhismo e la meditazione spesso mi aiutano a riacquisire un certo equilibrio, una certa sensibilità.
C’è un filo rosso che unisce le tue opere, anche nei periodi di maggiore cambiamento o
transizione?
Si, probabilmente l’amore per quello che faccio, per l’arte e il desiderio di continuare a imparare, di sapere che non c’è un punto di arrivo.
Come vivi la dimensione dell’inquietudine o dell’instabilità nella tua ricerca artistica?
La vivo impegnandomi in quello in cui credo, cerco di non lasciarmi sopraffare dall’ostilità, cerco di dare un po’ di luce aldilà di tutta l’inquietudine, diciamo che cerco un modo per rallegrare il cuore… Dipingo e osservo. I colori, le forme, le immagini che dipingo veicolano dei messaggi e forse è più facile rispondere a questa domanda se si osservando i miei dipinti, poiché a parole mi risulta complesso.
Qual è stata l’esperienza più trasformativa tra quelle vissute all’estero, anche al di fuori dell’ambito artistico?
È molto difficile scegliere, d’impatto direi ritrovarsi da solo di notte a Baracoa durante il passaggio dell’uragano Matthew e vedere al mattino che molte case erano crollate e l’intera foresta di palme sulla spiaggia distrutta. Trasformativa è stata anche l’esperienza di stare un mese a Tunisi durante il periodo dell’attacco terroristico al museo del Bardo, ma non meno importante è stato anche andare a piedi e zaino in spalla in agosto da Burgos a Santiago con mio fratello per poi prendere un aereo e andare a passeggio per i canali d’Utrecht e Amsterdam. Ma non riesco a non considerare anche i lunghissimi pellegrinaggi ai musei di Parigi, con i concerti nei jazz club e le notti insonni e rosse di vino. E in questa lista non può mancare l’esperienza del ritirarsi 6 mesi in un paesino sul mare di una riserva naturale di Mallorca, con capre e montoni curiosi del mio fare pittura en plein aire su scogliere amene. Non riesco a scegliere un esperienza fra tutte, sebbene ultimamente su un bus a due piani dalle parti di Hyde park mi è riaffiorata alla memoria l’avventura incredibile che feci con un mio amico quando in estate a 18 anni ci trasferimmo nella periferia di Londra a Streatham Hill e quando alla sera ritornavamo a casa eravamo così stanchi per la giornata ricca e piena di cose che finiva che ci addormentavamo sul bus ed erano più le volte che ci si risvegliava al capo linea che di quelle che si riusciva a scendere alla nostra fermata!
Quale ruolo ha, secondo te, l’arte oggi rispetto all’ascolto e alla comprensione dell’Altro?
Attraverso l’arte si può tentare di comprendere meglio se stessi, ma anche aiutare gli altri a
comprendersi. L’arte può essere un vero e proprio salvagente, può creare dei ponti che aiutano a vivere. L’arte amplia il cerchio delle proprie vedute, ti può mettere in contatto con una dimensione meno superficiale di vita rispetto a quello a cui la società contemporanea ti abitua… con l’arte puoi cogliere un riflesso dell’altro, vedere oltre ma anche “rispecchiarsi”, scoprirsi, liberarsi. L’arte è un buon mezzo per decolonizzare la propria mente da tutto un modo di pensare malsano e nocivo sia per sé stessi che per l’altro, con l’arte si può rendersi più capaci di aprirsi e anche di accogliere, senza pregiudizi, preconcetti, chiusure. Per me l’arte ha un ruolo simile a quello che ha una pratica spirituale.
Descriviti in tre colori.
Giallo di cadmio scuro, cinabrio naturale, blu cobalto.










