Nato a Torino nel 1996, Marco è un’artista autodidatta che opera nel campo della scultura con tecniche innovative e sperimentali. Dopo una prima formazione nel settore dell’ automotive, insegue la sua passione per l’arte e il design, iniziando a realizzare sculture in gesso. Nella la sua prima mostra personale a Torino nel 2018, Chiazzolino si esprime mediante un’arte concettuale dove le idee sono più importanti del risultato estetico e percettivo dell’opera stessa. L’elemento fondamentale dell’arte di Marco sono i volti in pietra e marmo, volti dietro i quali non si nascondono persone ma esseri inumani, forse demoni. L’aspetto più inquietante di tutto ciò è la percezione angosciante di essere osservati. Altro aspetto cardine delle opere di Chiazzolino è la sua grande capacità di trasformare un supporto bidimensionale come la tela, in uno spazio tridimensionale, dove la profondità diventa elemento imprescindibile.
Cos’è per te l’arte?
Per me l’arte è necessità. È il modo più autentico che ho per dare forma a ciò che non so dire a parole: inquietudini, pensieri, visioni. È un linguaggio fatto di materia e intuizione, che mi permette di esplorare me stesso e il mondo in una forma più vera.
Cosa ti ha spinto a passare dal settore automotive all’arte e alla scultura? In che modo la tua formazione iniziale ha influenzato il tuo approccio artistico?
Il passaggio dall’automotive all’arte è stato naturale, anche se non immediato. Sentivo il bisogno di esprimermi in modo più diretto, senza vincoli industriali. La progettazione tecnica mi ha insegnato rigore, precisione e un forte rispetto per i materiali — elementi che oggi porto nella scultura. Ma nell’arte ho trovato qualcosa di più: uno spazio in cui forma e concetto si incontrano liberamente, dove posso esplorare l’umanità in modo più profondo.
Le tue opere si caratterizzano per l’uso di volti in pietra e marmo, ma con una dimensione inquietante. Cosa rappresentano questi volti per te? Perché scegli di renderli “esseri inumani” o “demoni”?
Quei volti per me non sono ritratti, ma riflessi interiori. Non rappresentano persone, ma emozioni che spesso non mostriamo: paura, turbamento, fragilità. Li definiscono ‘demoni’ o ‘esseri inumani’, ma in realtà raccontano l’umanità più nascosta, quella che tutti portiamo dentro. La pietra e il marmo mi aiutano a dare forma e peso a queste presenze: scolpirle è un modo per affrontarle e, forse, liberarle.
Nelle tue opere, l’elemento concettuale sembra prevalere rispetto all’estetica. Come sviluppi le tue idee prima di tradurle in scultura? Qual è il processo che segui per dare vita ai tuoi concetti?
Per me tutto nasce da un pensiero, da qualcosa che mi colpisce a livello emotivo o esistenziale. A volte è un’immagine mentale, altre volte una sensazione difficile da spiegare. Non parto mai dall’idea di fare qualcosa di ‘bello’: cerco piuttosto di dare forma a un concetto, a un’emozione. Faccio schizzi, prendo appunti, ma è quando inizio a lavorare la materia — toccarla, ascoltarla — che il processo si chiarisce davvero. La scultura prende forma dialogando con la pietra. È un confronto, non una semplice esecuzione.
Il tema dell’osservazione angosciante è ricorrente nelle tue sculture. In che modo questa percezione influisce sull’interazione dello spettatore con le tue opere? Quale reazione speri di suscitare in chi guarda?
Mi interessa creare un senso di disagio, ma non fine a sé stesso. Quello sguardo angosciante che spesso emerge nelle mie sculture è uno specchio: lo spettatore non guarda solo l’opera, ma è anche guardato da essa. È in quello scambio che si crea qualcosa di vero. Non cerco una reazione precisa, ma spero sempre che chi guarda senta qualcosa muoversi dentro. Se un’opera riesce a disturbare, a far riflettere, a far sentire vulnerabili, allora ha fatto il suo lavoro: ha toccato qualcosa di autentico.
La tua capacità di trasformare una tela bidimensionale in uno spazio tridimensionale è davvero interessante. Come sviluppi questo effetto e quale impatto pensi abbia sull’esperienza visiva del pubblico?
Quando lavoro sulla tela, non penso solo alla superficie: penso allo spazio che si può aprire oltre. Uso materiali, sovrapposizioni e tagli per creare una sorta di illusione tattile, un varco che spinga lo sguardo a entrare. Mi interessa rompere il confine tra il dentro e il fuori, tra ciò che è immagine e ciò che è materia. Credo che questo effetto spiazzante coinvolga lo spettatore in modo diverso, più fisico, quasi costringendolo a spostarsi, ad avvicinarsi o a interrogarsi su cosa stia realmente guardando.
Come ti approcci alla sperimentazione nelle tecniche scultoree? Ci sono materiali o metodi specifici che ti affascinano particolarmente e che pensi potrebbero rappresentare una nuova direzione per il tuo lavoro?
La sperimentazione per me è fondamentale. Anche se lavoro molto con la pietra e il marmo, sento spesso il bisogno di uscire da ciò che conosco. Mi affascinano i materiali che reagiscono, che cambiano nel tempo: metalli ossidati, resine, elementi organici. Mi interessa vedere cosa succede quando metti insieme materiali ‘nobili’ e altri più poveri o industriali. Non cerco l’effetto, ma nuove possibilità espressive. Ogni materiale porta con sé un linguaggio, e scoprirlo è come imparare a parlare una lingua nuova. Credo che il mio lavoro stia andando sempre più verso una contaminazione di tecniche e materiali.
Qual è il messaggio principale che desideri comunicare attraverso la tua arte concettuale? Come pensi che l’arte possa andare oltre il risultato estetico per trasmettere idee più profonde?
Il mio intento non è comunicare un messaggio univoco, ma aprire uno spazio di interrogazione. Voglio che l’opera generi domande, non risposte. Attraverso la mia arte cerco di portare alla luce ciò che spesso resta nascosto: i lati oscuri dell’essere umano, i conflitti interiori, le fragilità. L’estetica non è mai il fine, ma uno strumento. Credo che l’arte possa essere un veicolo potente per affrontare temi esistenziali, per disturbare, smuovere, far pensare. Se un’opera riesce a lasciare un segno dentro chi guarda, allora ha senso, anche se non viene ‘capita’ nel senso tradizionale del termine.
Come descriveresti l’evoluzione del tuo stile dalle tue prime opere a oggi? Ci sono stati cambiamenti significativi nel tuo modo di pensare e realizzare la scultura?
Non cerco di comunicare un messaggio definitivo, ma di aprire domande. La mia arte vuole esplorare le ombre dell’animo umano, portando alla luce ciò che spesso restiamo a nascondere. L’estetica è solo un mezzo per far riflettere, disturbare e stimolare pensieri più profondi.
Hai mai pensato di integrare altri media o forme artistiche nelle tue opere, come video o performance, per arricchire l’esperienza delle tue sculture?
All’inizio cercavo di perfezionare la forma, di restare legato a una tradizione classica. Oggi, invece, mi interessa di più l’intensità emotiva e il messaggio che ogni scultura può portare. Il mio approccio è diventato più sperimentale, più libero. Ho imparato a lasciare che la materia e il processo mi guidino, piuttosto che cercare un controllo totale. Ogni opera è diventata una ricerca, un dialogo continuo tra la pietra e le idee che emergono.
La tua prima mostra personale è stata nel 2018. Come ricordi quell’esperienza? Quali sono stati gli insegnamenti che hai tratto da quella prima esposizione?
La mia prima mostra nel 2018 è stata un momento di grande emozione e sfida. È stata la prima volta che ho visto le mie opere esposte in un contesto pubblico e ho capito quanto l’arte possa davvero suscitare reazioni forti. Quella esperienza mi ha insegnato a non temere di essere provocatorio e a rimanere fedele alla mia visione, anche quando non è facilmente comprensibile. Ho imparato che l’arte non deve solo ‘piacere’, ma deve comunicare e far riflettere.





