ORIANA DI LUCIANO

ORIANA DI LUCIANO

Oriana è un’artista visiva nata a Siracusa nel 1976. Fin dall’infanzia ha mostrato una spiccata inclinazione per il disegno, tanto da sognare di diventare stilista. A quattordici anni ha scelto di coltivare la sua passione iscrivendosi all’Istituto d’Arte, dove si è specializzata in Arte dei metalli e dell’oreficeria, distinguendosi per talento e dedizione, premiata anche da numerosi concorsi scolastici. Dopo il diploma, ha preferito intraprendere un percorso teorico, iscrivendosi al DAMS Arte dell’Università di Bologna, dove si è laureata con una tesi sulla metodologia della critica d’arte, concentrandosi sul Museo Bellomo della sua città natale. Dopo oltre un decennio trascorso a Bologna tra studi e lavoro, è tornata a Siracusa nel 2007. È proprio in questo momento, a seguito di un evento doloroso, che l’arte è tornata nella sua vita con forza, diventando strumento di guarigione e rinascita interiore. Oggi dipinge con una visione profondamente personale, rifuggendo dinamiche commerciali e scegliendo l’autenticità come principio guida. Le sue opere, popolate da figure femminili che evocano preziosi gioielli, riflettono la sua formazione orafa e una sensibilità cromatica intensa. Van Gogh, Dalì e Vermeer sono tra le sue influenze principali, ma è l’urgenza interiore, più di ogni altra cosa, a spingerla verso la tela.

Cos’è per te l’arte?

L’arte è la mia identità più autentica, il luogo dove abito davvero. È un atto intimo, conflittuale mai esibito nel momento in cui prende forma. Ogni tela è un parto silenzioso, una creazione che nasce da un pieno interiore e si compie nella ricerca di armonia, equilibrio, simmetria. L’arte per me non è intrattenimento né mestiere, ma presenza viva. È il modo in cui do voce a quello che non voglio, non posso o non riesco a spiegare. Nei colori, nei volti, nei dettagli preziosi che dipingo, c’è il modo in cui vorrei stare al mondo: composto, intenso, necessario.

Qual è stato il momento preciso in cui hai capito che tornare alla pittura era una necessità, e non solo un passatempo?

È stato un momento di grande rottura, in cui la mia vita è cambiata bruscamente e ho perso molti punti di riferimento. Mi sono trovata sola, a dovermi reinventare. È allora che ho capito che la pittura non era qualcosa che potevo scegliere o meno: era ciò che mi teneva in piedi. Non era un passatempo, ma un’urgenza. Ho ricominciato a dipingere per sopravvivere, per dare ordine al caos, per ricordarmi chi sono. E da quel momento non ho più smesso.

Come vivi oggi il rapporto tra la tua formazione teorica e quella pratica nella tua produzione artistica?

La mia formazione teorica e quella pratica convivono in un dialogo continuo, a volte armonico, altre volte conflittuale. C’è una tensione creativa tra istinto e razionalità, tra ciò che so e ciò che sento. Ma è proprio in questo contrasto che nascono le mie opere più vere, in bilico tra studio e intuizione.

Cosa significa per te rifiutare offerte professionali in nome della coerenza etica, e che impatto ha questa scelta sul tuo percorso?

Rifiutare offerte in nome della mia coerenza etica è una scelta che pago, ma che rivendico con orgoglio. Trovo denigrante la mercificazione dell’arte, l’autoreferenzialità di chi si mette in mostra invece di lasciare parlare le opere. È svilente vedere artisti che pagano per ottenere visibilità, che si fotografano accanto alle loro tele, che vendono la loro autenticità per un tornaconto personale. Non accetto compromessi. Non credo che ciò che oggi vediamo sui social lascerà traccia nei libri di storia dell’arte. Come diceva Klimt, è l’opera a dover parlare, non l’artista. Vendere va bene; vendersi no!!!

In che modo la tua esperienza nell’oreficeria continua a influenzare la tua visione estetica e il modo in cui costruisci le tue figure?

L’oreficeria è stata la mia prima forma d’arte: mi ha insegnato a dare valore al dettaglio, alla luce, alla simmetria. È un’influenza che porto con me in ogni tela. Nei miei dipinti, il colore è protagonista tanto quanto la figura. I gioielli che dipingo non sono semplici decorazioni, ma elementi narrativi, quasi sacri. Sono simboli di forza, energia, potere e identità, esattamente come lo sono i metalli e le pietre. Amo costruire armonie visive, in cui il volto e ciò che lo circonda si fondono in una composizione vibrante e preziosa. Cerco sempre l’equilibrio tra forza e grazia, tra forma e colore, tra intimità e intensità visiva. Il colore è la mia pietra e la linea il mio cesello.

Cosa cerchi nei volti e nei corpi femminili che dipingi, e che cosa vuoi che lo spettatore provi davanti alle tue “donne-gioiello”?

Nei miei dipinti cerco armonia, grazia, rigore, simmetria, intensità, una compostezza che racconti silenzi profondi, la verità che si nasconde nei silenzi, nelle fragilità, nella forza che spesso non ha voce. Non c’è solo estetica: c’è introspezione, c’è simbolo, c’è memoria. I gioielli e i colori che le avvolgono non sono decorazioni, ma protagonisti alla pari. Voglio che lo spettatore resti sospeso tra il volto e l’ornamento, che si perda nei dettagli e trovi in quell’equilibrio estetico uno specchio dove riconoscesse un pezzo nascosto di sé.

In che modo il confronto con artisti come Van Gogh, Dalì e Vermeer si riflette, oggi, nel tuo modo di intendere la pittura?

Van Gogh mi ha insegnato l’intensità emotiva. Dalì la libertà immaginativa. Vermeer la luce, la pazienza e il silenzio. Da ciascuno traggo un’eredità diversa, che si fonde nella mia voce personale. Non imito, ma ascolto. Li porto con me come fari, senza mai tradire ciò che ho da dire io.

Ti capita mai di dipingere per qualcuno o qualcosa che non sia solo la tua necessità interiore?

Sì, dipingo anche per altri, ma sempre a una condizione: non snaturare il mio stile. Non accetto commissioni che non sento mie, né temi che non mi appartengono. Ogni dipinto deve creare una connessione emotiva ed estetica con me, altrimenti non riesco a realizzarlo. Anche se dipingo per qualcuno, quella tela deve parlare anche di me.

Hai mai pensato di raccontare la tua storia artistica in forma scritta o visiva per condividerla con chi affronta esperienze simili?

No. Non sento la necessità di raccontarmi. Preferisco che siano le mie opere a parlare per me, nel silenzio e nella libertà dell’interpretazione. Non mi interessa spiegare, ma evocare.

Descriviti in tre colori.

Turchese, per la mia spiritualità inquieta. Blu cobalto, per la mia profondità emotiva. Ocra, per le mie radici e la mia terra, calda e ruvida.

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