SENTIRE CON L’AI: VERSO UNA NUOVA ESTETICA DELL’UMANO

SENTIRE CON L’AI: VERSO UNA NUOVA ESTETICA DELL’UMANO

Viviamo un momento delicato, fragile, potenzialmente rivoluzionario. L’intelligenza artificiale non è più solo uno strumento, ma un dispositivo percettivo che modella la nostra immaginazione, le strutture narrative con cui ci raccontiamo, la grammatica stessa delle emozioni. La sua capacità di generare immagini, simulare sensibilità, emulare desideri estetici ci costringe a riformulare una domanda centrale: che cosa significa oggi “vedere”? Mi ha colpito questi giorni l’articolo di Mauro Zanchi su Il Giornale dell’Arte e ho avvertito la necessità di proseguire la sua riflessione, basandomi sulle esperienze e le connessioni che in questi anni ho avuto la fortuna di attraversare. L’arte digitale – quando non si limita alla spettacolarizzazione dell’algoritmo – può restituirci nuove forme di profondità. Ma richiede un nuovo tipo di sguardo: più sensibile, più lento, meno prevedibile. Nell’ultimo periodo ho partecipato a una serie di eventi – dalla Blockchain Paris Week a Art Dubai, passando per il Nxt Museum ad Amsterdam e Re:Humanism a Roma – che pongono al centro la relazione tra umanesimo e innovazione, tra cultura visuale e infrastrutture tecnologiche. Questi spazi di confronto, anche se molto diversi tra loro, mi hanno restituito un sentimento condiviso: la necessità di un’estetica relazionale, una nuova alleanza tra chi crea, chi custodisce e chi osserva. La possibilità di analizzare e condividere il sapere di artisti come Stephan Breuer mi hanno aiutata a mettere a fuoco un’idea che oggi sta diventando centro del mio lavoro curatoriale: l’eredità come motore di rigenerazione. È per questo che ho ideato, assieme a Riccardo Perillo, fondatore di Future Maastricht Museum & Gallery e al team di The Heritage di cui sono head curator, il progetto Re-Collect, una piattaforma curatoriale fluida che connette il vecchio e il nuovo collezionismo. Non è solo una questione di mercato o di NFT, ma di filosofia del gesto collezionistico, che oggi torna a interrogare l’intimità, la spiritualità, la memoria: in questo processo, digitalizziamo collezioni fisiche in dialogo tra loro, per rileggere le opere alla luce di nuove narrazioni. Insieme ad artisti e tecnologi, generiamo opere in grado di evolversi nel tempo secondo input affettivi forniti dai collezionisti stessi. E stiamo esplorando come la blockchain possa garantire non solo l’autenticità, ma la trasmissione del significato stesso dell’opera in una linea generazionale. In questo lavoro, la tecnologia non è mai feticcio, ma strumento critico: un alleato per scardinare automatismi, recuperare complessità, far emergere silenzi. L’opera digitale – se ben concepita – può oggi contenere un respiro millenario. Uncomfortable, il mio progetto curatoriale più personale, nasce da un’esigenza profondamente personale: comprendere come, al di là delle tecniche, delle estetiche e delle traiettorie individuali, ogni artista riesca a restituire qualcosa di invisibile ma potentissimo — un linguaggio interiore che prende forma attraverso il gesto; alcuni degli artisti coinvolti parlano lingue completamente diverse tra loro, eppure ho sentito che tra le loro opere si nascondeva un filo sottile, fatto di emozioni, di tensioni, di pensieri che vibrano sotto la superficie. Ho voluto seguire quel filo, disegnando un percorso che non fosse solo cronologico, ma emotivo, quasi neuronale: come se ogni opera fosse un impulso che collega il fare alla mente, e la mente al cuore. Per me, curare questa mostra ha significato ascoltare quei battiti nascosti, riconoscere nell’atto creativo — qualunque esso sia — una forma di pensiero vivo, pulsante, che ci unisce tutti nella nostra fragile umanità. Tutto questo nasce da una profonda esigenza di spostamento. Sentiamo sempre dire che “l’arte cambia”, ma forse dovremmo dire che l’arte ci cambia. E lo fa, oggi, in modo radicale. Le estetiche generative ci mettono davanti al fatto che l’umano non è più l’unico centro creativo, e questo genera resistenze, ma anche possibilità poetiche. In fondo, la tecnologia ci chiede di ripensare anche l’etica, il gesto curatoriale, la fiducia. Le fiere sono cambiate. I musei stanno cambiando. I collezionisti – soprattutto i giovani – non cercano solo valore economico, ma valore esistenziale. Vogliono essere parte del processo, vogliono opere che dialoghino con il loro vissuto, non solo da guardare ma da attraversare. In questo senso, collezionare diventa un atto relazionale, quasi affettivo. Ecco perché non possiamo più permetterci di usare l’IA come una scorciatoia estetica. Dobbiamo usarla come lente. Come domanda. Come soglia. Nel mio percorso con Future Maastricht Museum & Gallery, stiamo cercando di costruire una rete di istituzioni e collezionisti che condividano questa visione: arte come esperimento, arte come relazione aumentata. Non più solo oggetto da possedere, ma ecosistema da abitare. Amo ripetere che nell’epoca dell’infinita riproducibilità, l’unicità si nasconde nell’intenzione. Non nell’immagine generata, ma nella domanda che l’ha fatta nascere. E forse il vero compito del curatore, oggi, è proprio questo: custodire domande. A chi si approccia a un evento artistico di qualsiavoglia natura, chiedo di mettersi in ascolto: lasciate che siano i gesti a parlarvi, le materie a sfiorarvi, i silenzi tra le opere a raccontarvi ciò che non può essere detto. Perché in fondo, siamo tutti fatti di connessioni invisibili — e forse, anche solo per un attimo, qui possiamo sentirle vibrare insieme.


di Charlotte Madeleine Castelli

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