VALERIA PISTILLI

VALERIA PISTILLI

Valeria, classe 1970, è una graphic designer, digital artist e synthographer con oltre trent’anni di esperienza nel mondo della comunicazione visiva. La sua carriera si è sviluppata attraversando tutti i principali ambiti del graphic design, dalla pubblicità alla progettazione per scenografie televisive e cinematografiche, fino alla comunicazione digitale e ai contenuti per i social media. Insieme a Michele Durante ha fondato lo Studio Creativin, un hub creativo specializzato in branding, strategie visive e contenuti per aziende, brand e produzioni culturali. Tra le numerose collaborazioni, spicca il lungo lavoro con il mondo del teatro, firmando la comunicazione di importanti spettacoli teatrali a livello nazionale e internazionale. Nel 2022 intraprende un nuovo percorso con il progetto SynthArt, che fonde arte e intelligenza artificiale generativa. Le sue opere digitali, definite sintografie, nascono da un dialogo tra creatività umana e algoritmo, e trovano la loro piena espressione nella fase di post-produzione, in cui Valeria interviene manualmente per dare profondità, autenticità e carattere all’immagine. Le sue creazioni esplorano temi legati all’identità, alla femminilità e alla trasformazione nel contesto digitale contemporaneo. Il 2025 rappresenta un anno di importanti traguardi, con la partecipazione a eventi come Artemida Art Expo a Milano, Top Selection Berlin presso la BBA Gallery di Berlino, e altre mostre di rilievo in Italia e all’estero. Le sue opere sono state pubblicate su riviste specializzate come Galleria Arte e Stile, con interviste curate dalla critica d’arte Silvia Valente. Oggi SynthArt è il nucleo del suo percorso artistico, un progetto in continua evoluzione nato dalla sperimentazione e dal desiderio di fondere tecnica e intuizione, tecnologia e umanità.

Cos’è per te l’arte?

L’arte è per me un linguaggio che precede la parola. È una forma di ascolto e di visione insieme, un modo per decifrare ciò che è dentro e tradurlo in immagine. È una soglia tra il visibile e l’invisibile, un tentativo di dare corpo all’intuizione e voce a ciò che, altrimenti, resterebbe muto. Nel mio lavoro l’arte è diventata uno spazio in cui la tecnologia non è contrapposta all’anima, ma ne diventa il prolungamento. È qui che si muove la mia ricerca: tra il gesto e l’algoritmo, tra la memoria e la visione, tra ciò che sono e ciò che ancora non conosco.

Come si è trasformato il tuo approccio alla comunicazione visiva passando dal graphic design tradizionale alla creazione di sintografie con l’intelligenza artificiale?

Ho iniziato in un’epoca in cui la grafica era ancora completamente analogica. Si disegnava a mano, si tagliavano testi con il cutter, si portavano le pellicole in tipografia. Ogni gesto era tangibile, ogni errore richiedeva ore per essere corretto. Ma era proprio in quella lentezza che si formava la mia idea di progetto: attenzione, dedizione, ascolto. Poi è arrivata la rivoluzione digitale e l’ho accolta con entusiasmo. Non come una rottura, ma come una naturale evoluzione del mio linguaggio visivo. Quando poi, nel 2022 ho iniziato a lavorare con l’AI, ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a un nuovo orizzonte creativo. Il passaggio non è stato immediato né semplice, ma la possibilità di fondere intuizione e calcolo, immaginazione e codice, ha aperto strade che prima non esistevano. Le sintografie nascono proprio in questo spazio fluido, dove umano e macchina si confrontano, e in cui la mia visione continua a trasformarsi.

Cosa ti ha spinto a fondare lo Studio Creativin e quali sono stati i momenti più significativi di questa esperienza condivisa con Michele Durante?

Creativin nasce da un’idea condivisa con Michele, che oltre a essere mio partner nel lavoro è anche il mio compagno di vita. Insieme abbiamo immaginato uno spazio in cui la comunicazione visiva potesse essere al tempo stesso funzionale e poetica. Nel tempo, Creativin è diventato un hub creativo che unisce branding, scenografia, comunicazione digitale e narrazione visiva. I momenti più significativi? Ogni volta che un progetto riesce a raccontare più di quello che ci aspettavamo. Ogni volta che la forma trova la sua anima. Ogni volta che un’idea prende vita con coerenza e libertà.

Il progetto SynthArt nasce da un dialogo tra umano e algoritmo: come vivi questo rapporto creativo con la tecnologia? Hai mai percepito un limite o, al contrario, una nuova libertà?

La tecnologia, per me, è uno specchio che moltiplica le possibilità. Non la considero mai una soluzione, ma una domanda. Il rapporto con l’AI è simile a una conversazione continua: io propongo, lei risponde, io correggo, lei rilancia. È un dialogo a tratti simbiotico, a tratti conflittuale. Il vero cuore del processo arriva in post-produzione, dove l’opera prende forma definitiva grazie al mio intervento manuale. È lì che umanizzo l’immagine, ne smusso le asperità, la carico di significato. Il limite più grande dell’AI è che non ha un corpo, non ha memoria emotiva. Ma è proprio per questo che l’artista resta insostituibile. Senza la mia visione, l’AI è solo un algoritmo. Con me, può diventare una nuova lingua dell’immaginazione.

Nelle tue opere digitali affronti temi profondi come identità e femminilità nel contesto digitale. Come scegli di rappresentarli e che tipo di riflessione vuoi stimolare nello spettatore?

Non penso alla femminilità come a una categoria da rappresentare, ma come a un flusso da attraversare. Le mie opere cercano di restituire una visione non lineare dell’identità, fatta di contrasti, di metamorfosi, di tensioni. I corpi che creo sono spesso ibridi, ambigui, sospesi tra forza e fragilità.
Vorrei che chi guarda si fermasse. Che si lasciasse toccare, anche senza capire tutto. Vorrei che quelle immagini aprissero domande, non che offrissero risposte. La mia femminilità è inquieta, è mobile, è un prisma che cambia con la luce.

La post-produzione manuale gioca un ruolo fondamentale nelle tue sintografie. Cosa succede in quel momento del processo creativo e cosa determina per te che un’opera sia “compiuta”?

La post-produzione è un atto di intimità. È il momento in cui l’immagine generata diventa mia.
Qui non c’è più algoritmo che tenga: ci sono solo io, lo schermo e l’istinto. Modifico, perfeziono, ma non per rincorrere la perfezione: piuttosto, per far emergere l’emozione. Un’opera è compiuta quando smette di chiedermi di lavorarci ancora. Quando mi guarda indietro. Quando, finalmente, parla da sola.

Hai attraversato tre decenni di evoluzioni nella comunicazione visiva. Quali cambiamenti ritieni più significativi e come hai mantenuto vivo il tuo linguaggio artistico in questo continuo mutamento?

Sentire “tre decenni” probabilmente mi autorizza a definirmi un po’ vintage (sono del 1970, fate voi i conti!)… Ma proprio questo lungo tragitto mi ha dato un vantaggio: ho potuto vivere la transizione dall’analogico al digitale, e ora all’AI, con piena consapevolezza. Il cambiamento più grande? La velocità. Un tempo la creatività richiedeva lentezza, attesa, sedimentazione. Oggi tutto è immediato, replicabile, virale. Viviamo nell’epoca del “subito”: l’idea va prodotta, postata, condivisa — prima ancora di essere davvero maturata. Le immagini corrono veloci, si moltiplicano, si sovrappongono.
Ma in questa accelerazione costante, il rischio è che si perda qualcosa: la profondità, il tempo per sbagliare, la possibilità di tornare indietro. Per questo continuo a credere nella necessità di rallentare anche quando tutto intorno accelera. Perché solo nella lentezza, a volte, si trovano davvero le intuizioni più autentiche. E anche nell’era digitale, restare fedeli a un tempo interiore può essere il gesto più radicale di tutti. Spesso è difficile, ma provo a non farmi travolgere dal tempo. A usare la tecnologia, senza farmi usare. Il mio linguaggio si è evoluto senza mai dimenticare da dove è partito. Le mie prime linee tracciate a mano sono ancora lì, anche se oggi si trasformano in pixel. E forse è proprio questo a tenerlo vivo: la memoria del gesto, anche quando si fa digitale.

Come vivi il confronto con altri artisti nei contesti espositivi internazionali? In che modo queste esperienze influenzano il tuo lavoro o la tua visione artistica?

Ogni esposizione è un’occasione per uscire dalla propria bolla. Il confronto è arricchente, soprattutto quando si abbandonano le etichette e si entra davvero in ascolto. Non mi interessa competere, mi interessa dialogare. Vedere come altri artisti affrontano temi simili o completamente diversi, mi aiuta a rimettere in discussione i miei percorsi, a scoprire nuovi punti di vista. E ogni volta che un’opera viene esposta in un luogo nuovo, è come se cambiasse leggermente pelle.
Perché l’arte, in fondo, è relazione.

Quali sono le sfide più grandi che hai incontrato nel portare SynthArt nel mondo dell’arte contemporanea e come hai affrontato eventuali resistenze nei confronti dell’uso dell’IA in ambito creativo?

La sfida più grande è far capire che l’AI non è un tasto magico. C’è ancora chi pensa che “sia tutto la macchina”. Come se bastasse premere un tasto e attendere che l’arte si generi da sola. Ma una sintografia non è un automatismo. È un processo. Dietro ogni immagine ci sono ore di tentativi, di rifiniture, di decisioni a volte invisibili ma determinanti. C’è l’occhio che sceglie, la mano che interviene, la mente che riflette. C’è la visione di chi non si accontenta, che torna sull’opera ancora e ancora, finché ogni dettaglio risuona. La tecnologia è uno strumento straordinario, ma senza l’intenzione, l’intuito e l’esperienza, resta solo un insieme di dati. È lì, tra intuizione e algoritmo, che nasce l’arte. Il pregiudizio esiste, ma non lo combatto a parole: lo affronto con le opere. Quando una sintografia emoziona, quando smette di essere “digitale” e diventa “viva”, allora il confine tra umano e artificiale si dissolve. SynthArt è il mio modo di dire che l’arte non è dove nasce, ma dove arriva.

C’è un’opera o un progetto a cui sei particolarmente legata e che consideri un punto di svolta nel tuo percorso?

Sicuramente “WHO I AM”, l’opera selezionata per la Top Selection Berlin 2025. Non solo per il riconoscimento, ma per il significato personale che porta con sé. È un’opera che parla di identità, di accettazione, di forza e di vulnerabilità. È il mio specchio in un momento di transizione. Quando l’ho vista “compiuta”, ho capito che SynthArt non era più solo un esperimento, ma una direzione chiara.
E forse, anche una dichiarazione di intenti.

Guardando al futuro, in che direzione vorresti evolvere il progetto SynthArt? Ci sono ambiti o linguaggi che ti piacerebbe esplorare ulteriormente?

Vorrei che SynthArt diventasse una piattaforma sempre più aperta, anche alla contaminazione.
Mi interessa esplorare il rapporto tra arte digitale e materia, magari con collaborazioni che trasformino le sintografie in opere tridimensionali, tattili, immersive. Mi piacerebbe anche portare SynthArt nelle scuole, nei luoghi dove si pensa ancora che la tecnologia sia un nemico dell’arte.E poi, credo che sarà anche chi guarderà queste opere – chi le incontrerà in una mostra, chi le intercetterà sul web, chi ci si riconoscerà o le metterà in discussione – a contribuire a tracciare nuove direzioni.
Perché il futuro non è una minaccia: è una tela bianca. E a me, da sempre, piace dipingerla.

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