Vincenzo, in arte Vincent, è un artista visivo nato nel 1984, che ha trasformato la sua ricerca estetica in una dichiarazione di intenti. Attraverso un linguaggio che fonde pop culture, ironia e una cura artigianale quasi ossessiva, Vincent rielabora icone contemporanee per restituirle al pubblico in una veste nuova: preziosa, riflessiva, provocatoria. Ogni sua opera, che si tratti di una scultura monumentale o di un quadro dipinto a mano, nasce da un processo rigorosamente manuale, in cui materiali nobili come la foglia oro, i cristalli Swarovski o le resine di alta qualità si uniscono a una visione concettuale nitida. Nulla è decorativo: tutto è pensato per interrogare, per raccontare. Vincent lavora sulla riconoscibilità. Utilizza simboli familiari — come i cartoon, i loghi del lusso, i codici del denaro — per sovvertirne il significato e riflettere sulla nostra epoca. Ogni pezzo è unico o prodotto in tirature estremamente limitate, firmate e certificate, pensate per instaurare un dialogo diretto con il collezionista. Opere come la Vespa d’epoca dipinta a mano con pattern Vuitton o “Teddy Sound”, l’orso rivestito di dollari e dotato di impianto audio Bluetooth, raccontano un modo di fare arte che non rinuncia né alla spettacolarità né al pensiero. In questo percorso emerge anche la figura umanizzata di Paperon de’ Paperoni, trasformata in “Human Scrooge”: un simbolo delle ambiguità del potere, del desiderio e del denaro. Il suo lavoro ha attraversato anche i confini legali, dando vita a un caso giudiziario diventato punto di riferimento in Italia per la libertà artistica. Dopo un lungo processo, la legittimità della sua opera è stata riconosciuta dalla Cassazione, sancendo un precedente importante nel rapporto tra arte e diritto. Vincent continua oggi a costruire opere che combinano tecnica impeccabile, pensiero critico e forte impatto visivo. La sua estetica lucida, sensuale e insieme rigorosa, è una dichiarazione di poetica: l’arte, per lui, non può essere superficiale. Deve colpire, ma anche restare.
Cos’è per te l’arte?
È la mia personale forma di controllo sul caos. L’arte è il tentativo, sempre imperfetto, ma necessario, di raggiungere una precisione assoluta in un mondo che non lo permette. Ogni opera è un esercizio di equilibrio tra istinto e rigore. Per me non è mai solo espressione: è costruzione, verifica, correzione. È cercare il millimetro giusto, anche se nessuno lo vede.
Qual è il confine tra icona pop e opera d’arte, e come si mantiene intatto il messaggio originale durante la trasformazione?
Quel confine lo rispetto come una linea tracciata con il righello. Quando prendo un’icona pop, il mio primo impulso è quello di disinnescarla, ripulirla, ricalibrarla. La trasformazione è chirurgica: non voglio sovraccaricare, ma tradurre con esattezza. Il messaggio originale non si perde, si affina. Diventa più nitido, più strutturato.
In che modo la manualità entra in dialogo con il concetto di lusso nelle tue opere?
Manualità, per me, significa controllo totale. Ogni passaggio è eseguito con la stessa attenzione che si riserva a un rituale. Il vero lusso non è il materiale in sé, ma il tempo e la concentrazione che richiede. Quando doro un’opera o la rifinisco, cerco sempre la superficie più pulita, la linea più coerente. Non tollero l’approssimazione, anche se so che la perfezione assoluta non esiste.
Cosa ti guida nella scelta dei simboli da reinterpretare: la loro forza visiva, il significato culturale o altro?
Mi guida la possibilità di misurarmi con la complessità. Scelgo simboli che abbiano una struttura chiara ma che posso destrutturare e ricomporre secondo la mia grammatica. Se un oggetto ha linee pulite, forza iconica e margine per essere raffinato, allora è mio. È come scegliere una sfida geometrica, ogni volta.
Come cambia il tuo approccio creativo quando lavori su un’opera funzionale, come la Vespa o Teddy Sound?
L’approccio diventa ancora più metodico. Un oggetto funzionale ha vincoli precisi, e io li prendo sul serio. Non voglio solo decorarlo: voglio potenziarne il significato, senza mai compromettere la sua struttura. Ogni modifica è calibrata, testata, rifinita. Sono opere in cui ogni millimetro conta.
Che ruolo ha per te l’ironia? È un filtro, una provocazione o uno strumento di empatia?
L’ironia è una pausa precisa dentro un discorso tecnico. Non è un vezzo: è un intervallo voluto, posizionato al momento giusto. Può ammorbidire un concetto, certo, ma anche evidenziarne le rigidità. Mi serve per far sorridere chi guarda… ma quel sorriso è calcolato al dettaglio.
La sentenza che ha riconosciuto la legittimità delle tue opere ha modificato il tuo modo di guardare alla libertà artistica?
Mi ha confermato che la coerenza paga. Non ho mai lavorato nell’ambiguità: ogni opera, ogni scelta formale era e resta pensata, ponderata, motivata. La libertà artistica non è licenza di fare tutto, ma possibilità di farlo con rigore, secondo le proprie regole interne. La sentenza ha semplicemente legittimato il mio metodo.
Cosa significa per te unicità, in un mondo in cui tutto tende a essere replicabile?
Significa che ogni mia opera, anche in edizione, ha una firma invisibile: l’ossessione per il dettaglio. Nessuna replica è mai davvero identica, perché ogni passaggio è umano, ogni imperfezione è controllata, mai lasciata al caso. La vera unicità è nella cura maniacale, non nella quantità.
Come dialogano tra loro artigianalità e contemporaneità nella tua pratica quotidiana?
Per me non esiste contemporaneità senza artigianalità. La mano controlla quello che la mente immagina. Il gesto artigianale è ciò che mi consente di rendere esatto un pensiero astratto. Uso strumenti del presente, ma con una precisione che richiama quella di un laboratorio rinascimentale. È lì che mi sento a casa.
In che modo il contatto diretto con i collezionisti influenza la tua visione e la tua produzione?
Con alcuni collezionisti si crea una complicità silenziosa: intuiscono il mio livello di esigenza e lo rispettano. Il confronto con loro mi aiuta a essere ancora più selettivo. Non lavoro per soddisfare, ma per convincere. E quando chi guarda coglie la precisione del mio gesto, allora la relazione diventa parte dell’opera.
L’eleganza dei materiali è sempre funzionale al concetto o può diventare un fine in sé?
L’eleganza, per me, è una questione di equilibrio. Se un materiale non serve al concetto, lo elimino. Ma se può essere gestito con rigore, diventa essenziale. Uso oro e cristalli solo se li posso dominare. La bellezza deve essere precisa, altrimenti è solo ornamento.
Descriviti in tre colori.
Nero metallizzato – profondo, ma mai completamente leggibile. Oro puro – quando serve brillare, ma con disciplina. Bianco tecnico – pulito, calibrato, senza sbavature.






Per caso ho conosciuto Vincent e le sue opere ma non è per caso che sono riuscita ad apprezzarne il valore
Un esempio di apparente semplicità di messaggio trasmesso attraverso un pensiero costruttivo e creativo complesso e una precisione e attenzione ai dettagli unica (anche quando il dettaglio per come pensato deve essere ‘impreciso’). Opere dove il dettaglio viene trasformato in perfezione ma dove la perfezione non è un dettaglio.
Difficile resistere…e infatti io non ho resistito!