MICHELA CALZONI

MICHELA CALZONI

Michela, nata a Bologna, si avvicina alla musica giovanissima iniziando lo studio del pianoforte a undici anni e del canto a quattordici, con la convinzione fin da bambina che quella sarebbe stata la sua strada. Parallelamente alla musica intraprende studi in psicologia, laureandosi, e coltiva anche la passione per il teatro, portando in scena diversi spettacoli. A soli diciassette anni debutta con i primi concerti e a venti inizia a insegnare, scegliendo di portare avanti le due carriere in parallelo, senza mai interrompere la propria formazione attraverso workshop e seminari con grandi maestri del jazz come Dena De Rose, Rachel Gould e Buster Williams. Negli anni calca palchi prestigiosi come Umbria Jazz, festival, teatri, club ed eventi televisivi per Rai 1, esibendosi con diverse formazioni e talvolta presentando spettacoli di sua scrittura. Un momento determinante del suo percorso è l’incontro con Nardo Giardina, fondatore della storica Doctor Dixie Jazz Band, con la quale ha avuto il piacere di cantare per un periodo: un’esperienza che le ha confermato quanto fosse vitale per lei dedicarsi a questa professione. Accanto all’attività artistica, l’insegnamento diventa una parte fondamentale della sua vita. Grazie ai titoli, alle certificazioni e all’esperienza maturata, Michela trova la propria cifra stilistica nell’arte di trasmettere il canto come un equilibrio tra tecnica e sentimento, studio e spontaneità, precisione e presenza scenica. È vice direttrice dell’Accademia di Canto Realsound di Bologna, dove coordina i corsi e segue personalmente il corso avanzato professionale a numero chiuso, dedicato a chi desidera affinare competenze per affrontare il canto in maniera professionale. Collabora anche con aziende di alta formazione e con il liceo musicale Lucio Dalla, tenendo workshop sull’uso della voce nella comunicazione efficace. Il contatto con gli allievi le permette di vivere esperienze profonde, spesso oltre le ore di lavoro, mentre i live le offrono l’occasione di instaurare con il pubblico un rapporto diretto e caloroso, soprattutto nella dimensione intima dei club, senza rinunciare al piacere delle grandi esibizioni teatrali. In questo continuo intreccio tra palco e insegnamento, Michela Calzoni porta avanti una carriera che unisce passione, ricerca e dedizione, restituendo alla musica tutta la sua complessità e bellezza.

Cos’è per te la musica?

La musica è la parte più grande della mia vita: è il mio lavoro, la mia passione, la mia cura, il mio svago.

Qual è stato il momento preciso in cui hai capito che la musica sarebbe stata il tuo percorso di vita?

Credo di averlo sempre pensato. Da piccola, molto piccola, tipo 3 massimo 4 anni chiesi in regalo ai miei genitori un microfono. Mi arrivò ovviamente un microfono giocattolo col quale ho “intrattenuto” i miei pazienti genitori con infiniti concerti inventati… ho iniziato prestissimo a studiare a pianoforte e canto. La consapevolezza vera e propria che avrei voluto fare questo come lavoro probabilmente è arrivata alle scuole medie.

Come convivono dentro di te la cantante e la psicologa, due dimensioni apparentemente lontane ma che sembrano incontrarsi nella tua esperienza artistica?

Sono laureata in psicologia ma non pratico la professione, diciamo che gli studi inerenti a questa straordinaria materia mi hanno sicuramente arricchita da un punto di vista culturale e mi hanno dato strumenti che si sono rivelati molto preziosi in alcune situazioni legate all’insegnamento. Come dico sempre, non insegno una materia scolastica “normale” ma un’arte il che richiede da parte dell’allievo una grande disponibilità emotiva, soprattutto quando si toccano argomenti come l’interpretazione dei testi, che talvolta possono toccare sfere molto personali.

In che modo il teatro ha arricchito la tua sensibilità musicale e il tuo modo di stare sul palco?

Nei corsi di teatro ho affrontato tutto ciò che riguarda la recitazione, dalla dizione, all’interpretazione di testi o poesie, gestione del palco… Sono strumenti fondamentali anche del canto nonostante ci sia una differenza notevole tra cantare e recitare: quando si recita si diventa il personaggio che si interpreta, si presta il proprio volto, voce e corpo per dare vita a qualcuno. Questo richiede certamente uno sforzo importante di immedesimazione anche attraverso le proprie esperienze e la propria empatia. Quando si canta si è sé stessi a servizio di un testo, si è più “scoperti” emozionalmente perché non abbiamo maschere.

C’è un ricordo particolare legato ai tuoi primi concerti che ancora oggi porti con te?

Un concerto che segnò in un certo senso uno spartiacque tra un prima e dopo. Avrò avuto 20-21 anni, e la mia esibizione era in un teatro a Bologna. Dovevo aprire lo spettacolo cantando una canzone totalmente a cappella (senza musica o basi) e senza microfono, entrando alle spalle del pubblico, percorrendo la platea e raggiungendo il palco per concludere il brano. Questa idea di essere totalmente non supportata da musica (con il rischio magari all’epoca di perdere la tonalità o di far sentire un tremolio della voce), di dover essere così vicina al pubblico (io da bambina e fino ai 20-22 anni sono stata veramente timidissima), di muovermi nel buio senza poter guardare in basso perché dà indicazioni di regia dovevo guardare dritto e basta, insomma il tutto mi paralizzava dalla paura. Alla fine, andai in scena e non so come accadde la magia. Forse per la prima volta in vita mia riuscì non solo a controllare l’ansia ma a godermi il momento. Credo fu il giorno in cui il mio rapporto col palco, sempre piuttosto ansiogeno, finalmente cambiò.

Quale insegnamento prezioso ti è rimasto dagli incontri con grandi maestri del jazz come Dena De Rose o Rachel Gould?

Durante i loro workshop ho imparato tante cose legate al jazz ma non solo… ricordo Dena una volta affrontare con un’allieva l’argomento “occhi” e quanto fosse in un certo senso sbagliato tenerli chiusi per tutta la durata di un brano: diceva che è un atteggiamento che crea distanza con il pubblico. Rachel invece parlò lungamente del suono delle parole e di come possono essere “percussive” volendo, contribuendo a sostenere il ritmo e creare il groove. Insegnamenti preziosi che trasmetto a mia volta ai miei allievi

Cosa ti ha lasciato dentro l’esperienza con la Doctor Dixie Jazz Band e l’incontro con Nardo Giardina?

A Nardo devo moltissimo, mi ha trasmesso l’importanza di guadagnarsi i meriti e il rispetto dei colleghi, ma lo ringrazierò sempre per avermi seppur involontariamente incoraggiata a perseguire il mio obiettivo di cantare: eravamo una sera di più di 12 o 13 anni fa, nella storica cantina di via Cesare Battisti di Bologna dove la mitica Doctor Dixie si trovava e si trova a fare prove e concerti. La serata era finita, il pubblico era andato via o era in un’altra stanza a chiacchierare e bere qualcosa col resto dei musicisti mentre io ero ancora sul palco con Nardo. Lui è stato un grandissimo medico ginecologo della città oltre che il fondatore della Doctor Dixie… nonostante i suoi successi come medico e come musicista, quella sera all’improvviso e senza apparente motivo, ancora con la sua tromba in mano esclamò “io ho ottenuto tanto dalla vita, nella professione e nella musica ma se tornassi indietro suonerei e basta. Se uno nella vita vuole suonare, deve suonare e basta”. Lui non l’ha mai saputo ma quella frase “se uno vuole suonare, deve suonare e basta” mi cambiò la vita e mi fece decidere in modo definitivo di abbandonare il mondo della psicologia e tutto ciò che non centrava con la musica.

Come riesci a mantenere l’equilibrio tra la precisione tecnica e la spontaneità emotiva quando canti o insegni?

È un risultato che richiede molto lavoro e non c’è una regola base ma per quello che mi riguarda credo che il segreto sia studiare molto bene la tecnica, padroneggiarla come si padroneggiano azioni elementari come camminare… noi non pensiamo a come mettere i piedi, lo facciamo e basta. Ecco, avere una sicurezza così forte aiuta a non pensare alla riuscita tecnica del brano ma a mettere a disposizione del testo la nostra competenza così da poterci lasciare andare alle emozioni e riuscire a comunicarle a chi ascolta. Certo non è un percorso veloce ma è necessario.

Quali sono le sfide più grandi che incontri nel coordinare i corsi all’Accademia Realsound e nel seguire un corso avanzato così selettivo?

La sfida più grande per un insegnante credo sia quella di “fidelizzare” un allievo così da poter avere un percorso completo con una persona e curarne veramente la crescita. Io sono molto felice e grata di avere persone con cui lavoro alla loro crescita artistica da anni e ogni volta che si esibiscono l’emozione è enorme perché conosco la loro storia dagli inizi, a volte quando magari erano ragazzine quindicenni e ora sono ragazze ventenni ormai esperte… Coordinare diversi corsi è una soddisfazione, poi come in qualsiasi lavoro ogni tanto ci sono stress organizzativi ma fa parte del pacchetto vice direzione e coordinamento Sono molto soddisfatta della squadra di docenti di canto dell’Accademia

C’è un luogo o un contesto in cui ti senti più a tuo agio nell’esibirti: il club intimo, il teatro, il festival?

Ogni luogo ha i propri pregi e in ognuno di loro c’è qualcosa che amo. I grandi festival sono elettrizzanti, c’è molto pubblico e molta energia. Il teatro è magico, la gente è lì per te in rigoroso silenzio, tu sei su un palco e hai l’obbligo di riempire il silenzio con la tua arte. Il piccolo club invece è intimo, spesso la prima fila è ad un metro dal palco, le persone le puoi guardare negli occhi, puoi scambiare anche due parole al termine del concerto o nella pausa se si fanno due set. Non saprei dire se preferisco una dimensione rispetto alle altre perché ognuna di queste situazioni ha il suo fascino.

Quali sogni o progetti artistici e didattici stai coltivando per il futuro?

Voglio ampliare le mie collaborazioni e le “connections” con nuovi musicisti.
 
Descriviti in tre canzoni.

Molto difficile scegliere… dirò 3 brani importanti per me: Life on Mars, The nearness of you, Lover man.

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