PIETRO MINGIONE

PIETRO MINGIONE

Il mondo di Pietro Mingione si configura come un intreccio visionario dove il colore diventa geografia mentale e la pittura un territorio da attraversare. Le sue opere, dense e stratificate, evocano una “foresta contemporanea”: un paesaggio interiore che si esprime attraverso forme spontanee, visioni aeree e rimandi organici, capaci di riflettere l’irregolarità e la complessità del pensiero umano. In questo habitat pittorico, l’artista mette in scena una tensione tra natura e artificio, dove l’impronta dell’uomo si fa evidente, quasi invasiva, ma mai definitiva. Il suo lavoro, sia performativo che pittorico, si muove tra immersione e distacco, aprendo varchi tra superficie e profondità, realtà e visione, caos e controllo. Le strutture labirintiche che abitano le sue tele rimandano a un sistema cerebrale in continua trasformazione, a un paesaggio mentale che sfida la linearità della narrazione. Con “Out of Control”, Mingione si interroga sulla genesi stessa dell’opera d’arte e sul ruolo dell’artista, che diventa esso stesso mezzo, corpo, tela, interrogando i confini tra volontà e impulso creativo. Attraverso installazioni provocatorie ispirate a dispositivi difensivi, rielaborati con materiali poveri, l’artista crea cortocircuiti visivi e concettuali: inviti a non abbassare la soglia dell’attenzione, a non lasciarsi addomesticare da un sistema che tende a normalizzare anche l’arte. Il suo approccio non cerca risposte facili, ma attiva dubbi e spazi critici. Pietro Mingione si muove così su un crinale sottile tra libertà espressiva e resistenza simbolica, restituendo all’arte la sua funzione più radicale: scuotere, confondere, far riflettere.

Cos’è per te l’arte?

L’arte per me è rifugio e tempesta, consolazione e tormento. È qualcosa di necessario per me, mi spinge e mi anima.

Cosa rappresenta per te la “foresta contemporanea”? È più un luogo mentale o un paesaggio reale?

La foresta è senz’altro un luogo mentale, fatto di materia onirica, di lampi ed improvvisi vuoti bui, dove è possibile perdersi o ritrovarsi.

Quando dipingi o performi, ti senti più esploratore o più abitante di questi territori visivi?

Mi considero più un esploratore anche a livello esperienziale, le mie performance nascono sempre dalla necessità di essenzialità nella comunicazione. Le opere stesse che realizzo sono aniconiche e povere, sembrano luoghi familiari ormai lontani . In generale mi sento felicemente perso quando faccio entrambe le cose.

In che modo il caos e l’imprevedibilità influenzano il tuo processo creativo?

Il caos, per me, è un lusso. È nella mia natura creativa. L’imprevisto è una fucina dove le idee si trasformano, è ciò che fa evolvere un’intuizione in un concetto compiuto. Posso costruire solidità anche partendo dal disordine.

Cosa significa per te diventare “tela” durante una performance? Dove si colloca, in quel momento, l’identità dell’artista?

Diventare “tela” durante una performance significa lasciar fuori ogni pensiero e offrire attenzione totale a ciò che accade. In quei momenti il legame con l’opera è sincero e profondo, ed è solo così che riesco a lasciare una traccia autentica del mio passaggio. In quei momenti mi sento vero.

Come affronti il rischio che l’arte venga ridotta a uno strumento di sistema, come accenni in “Out of Control”?

Bisogna rimanere autentici, avere una visione chiara delle cose oggettive e delle cose importanti. L’artista non ha bisogno di sentirsi protetto e coccolato, deve e vuole essere libero di esprimersi. Rincorrere il mito non dove essere lo scopo, il lavoro che si deve fare è su se stessi.

Cosa cerchi di provocare nello spettatore attraverso i tuoi “cavalli di Frisia”? È una difesa o un invito a oltrepassare?

I “cavalli di Frisia” sono un monito, uno schiaffo in pieno volto, la mia intenzione era di provocare angoscia e sgomento. Attraverso una fotocellula l’osservatore avvicinandosi faceva partire una registrazione audio di un bombardamento, creando uno stato di panico. Istallai l’opera durante la mia personale “RIFORESTAZIONE” una settimana dopo l’inizio del conflitto tra Russia ed Ucraina.

Ti riconosci nell’idea di Baudelaire del “pazzo che non si integra all’ordine”? E quanto è consapevole questa tua posizione?

Io credo che l’ordine sia un paradosso più che un attitudine, io non ho la necessità dell’ordine, se questo fa di me un pazzo , allora lo sono.

I tuoi labirinti sono trappole o vie di fuga?

Non ho ancora trovato la risposta a questa domanda ed è esattamente questo che alimenta il mio viaggio.

Quando parli di “inondare” le opere, ti riferisci più a un gesto emotivo, spirituale o sociale?

Un po’ tutte e tre, perché sono aspetti che muovono il mio interesse.

Pensi che oggi l’accessibilità all’arte equivalga anche a una perdita di profondità o è, invece, una conquista da difendere?

Come ho detto in una recente intervista, “Se l’arte fosse un alimento, credo che sarebbe il pane , alla base dell’alimentazione e per tutti”. Questo è un traguardo antropologico e sociale.

Descriviti in tre colori.

Bianco, Nero e Ruggine. Mi appartengono profondamente.

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