Claudia è nata a Bucarest nel novembre del 1987. L’arte è per lei una lingua madre, un modo primordiale di comunicare che ha preceduto le parole. Fin da bambina ha trovato nei colori e nei materiali il mezzo per esprimere emozioni profonde e mutevoli, dando vita a uno stile istintivo, popolato da figure velate, identità fluttuanti e volti sospesi tra l’espressione e il silenzio. Le sue immagini non nascono da una teoria, ma da un luogo interiore e intimo, dove ancora oggi affondano le radici del suo lavoro. Attraverso una continua sperimentazione di materiali – dagli acrilici agli oli, dal vetro alla tela – Claudia ricerca il confine in cui l’emozione si spinge al limite, trasformandosi in forma visibile. Il suo interesse non è riprodurre la realtà, ma dare corpo a ciò che è nascosto: emozioni sepolte, ricordi sfocati, verità non dette. Dipinge paesaggi psicologici, territori sospesi tra memoria e oblio, tra presenza e assenza, tra consapevolezza e percezione. Più tardi nel suo percorso, ha scelto di diventare medico, specializzandosi in geriatria. Questo passaggio non ha modificato il nucleo della sua arte, ma ne ha affinato lo sguardo e la comprensione. Lavorare a contatto con la fragilità umana, con l’invecchiamento e la perdita di memoria, le ha offerto nuove domande e nuove risposte. Le ha insegnato ad ascoltare ciò che non si dice, a riconoscere l’invisibile. Nel suo lavoro artistico, non cerca la bellezza immediata, ma la verità emotiva. Non vuole essere capita subito: desidera che le sue opere vengano percepite, sentite, vissute.
Cosa significa per te l’arte?
Per me, l’arte non è un’attività, ma un modo di vivere. È nel modo in cui mangiamo, parliamo, ci muoviamo, sogniamo. È il ritmo del pensiero, il tono della presenza, il modo in cui rispondiamo ai più piccoli dettagli della vita. L’arte non si limita alla pittura o alla scultura, ma è il tessuto emotivo dell’essere vivi. Vive in ciò che proviamo, non solo in ciò che creiamo su una tela. La nostra intera vita interiore è già una forma di espressione. Una forma d’arte.
Le tue opere sembrano provenire da uno spazio interiore profondo: come riconosci quando un’immagine è “pronta” per venire alla luce?
Non posso riconoscere qualcosa del genere. È così profondamente connessa alla mia mente; è qualcosa che semplicemente emerge e ha bisogno di essere rivelata. Conosci la sensazione della sete? Senti l’urgenza di bere acqua, altrimenti ti disidrati e tutto il corpo si sente sbagliato. È esattamente così che mi arrivano le idee per dipingere. Quando le sento, sono un’urgenza, una compulsione interiore, come una dipendenza. Come l’aria che respiro. Ce l’ho fin da bambina. Sono nata così.
C’è un momento preciso, nel processo creativo, in cui medicina e arte si incontrano?
Credo che medicina e arte siano profondamente connesse. Oltre ai ben noti benefici dell’arteterapia, ciò che mi affascina di più è quanto del cervello – soprattutto dell’inconscio – resti inesplorato. Ed è lì che entra in gioco l’arte. L’inconscio è lo spazio dove vivono immaginazione, istinto, emozione, sogni e mistero. È quel territorio che entro quando dipingo. La mia specializzazione in geriatria ha reso questa comprensione ancora più profonda. Lavorare a stretto contatto con persone che invecchiano, osservare la memoria svanire, le abilità motorie sparire, le emozioni cambiare, la solitudine prendere il sopravvento, mi ha fatto mettere in discussione tutto ciò che pensavo fosse stabile. Mi ha fatto vedere il tempo in modo diverso. Mi ha fatto sentire la vita in modo diverso. Ho iniziato a ripensare al mio modo di vivere, a essere più presente, a scegliere la gioia, a seguire ciò che amo senza rimandare. Ho iniziato a vivere con un senso tranquillo di urgenza – perché se non ora, quando? A volte viviamo come se fossimo eterni fisicamente, come se avessimo tempo infinito. Ma non è così. Eppure ci lasciamo consumare da cose che, alla fine, non contano. Dimentichiamo ciò che conta davvero. Forse è semplicemente la natura umana. Ma la medicina mi ha ricordato di ricordare. E l’arte mi ha dato un modo per esprimere ciò che ora so non può essere detto a parole.
Come reagiscono le persone ai tuoi “paesaggi psicologici”? Hai mai ricevuto interpretazioni che ti hanno sorpresa?
Spesso. Le persone si ritrovano nei miei quadri, li sentono. Molti li hanno descritti come “autentici”, e credo sia la parola giusta. Non nascondo emozioni o pensieri nel mio lavoro. Sono grezzi, a volte inquietanti – il tipo di sentimenti che alcune persone hanno paura o vergogna di esprimere, o forse non sanno nemmeno come farlo. Mi rende felice quando gli altri vi si rispecchiano. Quelle reazioni non mi sorprendono; confermano ciò in cui credo profondamente: che il lavoro bypassa il linguaggio e parla a qualcosa di più primordiale, più universale. Quando le persone si connettono con questo, non si tratta di capire l’immagine intellettualmente, ma di sentirsi visti, sentire qualcosa di vero. È lì che inizia la vera conversazione.
Hai mai sentito il bisogno di spiegare o difedere il tuo lavoro, o preferisci lasciarlo completamente aperto?
Non ho mai sentito il bisogno di difenderlo. Se un’opera ha bisogno di spiegazioni per esistere, forse non è onesta. Credo nell’offrire un contesto, non nell’imporlo. L’arte più potente lascia spazio all’ignoto, sia nell’immagine che nello spettatore. Non mi dispiace se qualcuno fraintende un dipinto. Anche il fraintendimento è una forma d’intimità.
Il tema dell’identità è centrale nel tuo lavoro. Quanto ha influito il tuo percorso personale, anche come migrante, sulla sua evoluzione?
Per me, l’identità non è mai stata qualcosa di fisso. L’io è fluido, a volte fratturato e plasmato dalla trama delle nostre esperienze di vita. Con il tempo, ho capito che l’appartenenza è più una sensazione che un luogo. Quello sradicamento emotivo, il sentirsi tra luoghi, tra sé, vive nel mio lavoro. I volti velati, i corpi frammentati, le espressioni sospese che si vedono nei miei quadri portano quella tensione. Possono essere letti come metafore, o no. Ciò che so è che riflettono ciò che significa contenere più verità dentro un solo corpo. Il mio lavoro non cerca soluzioni ordinate. Rispecchia la complessità dell’essere (o del diventare) un io in costante mutamento.
Come vivi il rapporto con la memoria – tua e degli altri – nell’atto del dipingere?
La memoria è il terreno su cui lavoro, ma non la memoria come cronologia. Non mi interessa “ciò che è accaduto”, ma come permane. L’atmosfera della memoria. La mia esperienza con i pazienti affetti da demenza mi ha insegnato qualcosa di essenziale: la memoria non è qualcosa che possediamo, ma qualcosa che ci possiede, finché un giorno scivola via. Nei miei quadri, a volte catturo quella scivolata – un volto a metà, un gesto incompleto, una presenza che si dissolve. Penso alle mie opere non come narrazioni, ma come impronte. Echi. Tracce di ciò che è stato sentito più che visto. E non si tratta solo di demenza. Tutti viviamo con una memoria selettiva. Alcune cose le ricordiamo, altre le dimentichiamo – ma in entrambi i casi, ci modellano. Credo che ricordiamo davvero solo ciò che ha avuto importanza emotiva per noi – che sia bello o doloroso. E in questo senso, dipingere diventa un modo per tracciare l’architettura emotiva di chi siamo.
Usi il termine “verità emotiva”: in cosa differisce, per te, dalla verità narrativa o realistica?
La verità emotiva riguarda la risonanza. È ciò che teniamo sepolto dentro, le cose che abbiamo paura di esprimere. A volte per paura del giudizio sociale, a volte perché ci è stato insegnato che la vulnerabilità è debolezza. Ma quegli strati nascosti sono le parti più umane di noi. Posso distorcere un volto, e potrebbe sembrare più vero di una somiglianza perfetta, perché cattura la vibrazione di un momento: la fragilità, il desiderio, la frattura. Non cerco di rappresentare ciò che è visibile. Cerco di rendere visibile ciò che di solito si prova in solitudine. Per me, la verità emotiva non riguarda l’accuratezza, ma l’esposizione.
C’è un’opera tua che senti particolarmente legata a un momento o passaggio della tua vita?
Sono profondamente legata a tutti i miei dipinti. Li amo tutti – ognuno mi ha aiutata a scoprire parti di me che non vedevo pienamente prima. Ma sì, ce n’è una che ha un posto speciale nel mio cuore: Mia figlia ed io. È un dipinto sulla maternità, sulla vulnerabilità e sulla saggezza silenziosa che i nostri figli portano con sé senza saperlo. Spesso crediamo di essere noi a guidarli – a insegnare, proteggere, plasmare il loro mondo. Ma a volte, è la loro luce a mostrarci la strada. Quest’opera cattura quel rovesciamento silenzioso. L’amore incondizionato e non detto tra madre e figlia. Un amore che protegge, ma che sa anche imparare. Mia figlia mi ha mostrato cos’è l’amore con occhi non filtrati. Questo è il dipinto che porterò sempre con me.
Lavori con tecniche e materiali diversi: come scegli ogni volta il mezzo o la superficie?
Il materiale è un partner nel processo. Gli acrilici forniscono di solito stabilità per la pittura di base, ma i colori a olio hanno l’ultima parola. Sono innamorata della pittura a olio. Il vetro è fragile e riflettente, e lo scelgo quando voglio esprimere qualcosa di delicato, come l’arte sacra. Non scelgo con la logica; scelgo in base a ciò che il dipinto ha bisogno di sentire. Ogni superficie porta con sé un proprio linguaggio emotivo.
Che ruolo ha il silenzio nella tua pratica creativa?
Il silenzio è essenziale nel mio processo pittorico – il silenzio della vita quotidiana. Per questo dipingo di notte, quando il mondo è silenzioso e tutti dormono. Tuttavia, non posso dipingere senza musica. Ma la musica non è rumore; mi aiuta a concentrarmi. Di solito ascolto compositori classici come Chopin, Prokofiev, Tchaikovsky e Paganini. La loro musica mi permette di concentrarmi e connettermi più profondamente con la mia mente.
Descriviti con tre colori.
Anche se la mia anima è piena di colori, come si riflette nel mio lavoro, non posso definirmi solo attraverso i colori. Sono attratta dai non-colori, dagli spazi intermedi. Il nero mi affascina più di tutti; è dove tutto e niente coesistono, dove il silenzio respira e la creazione ha inizio.





