Gabriela, in arte GAS, è un’artista polacca residente in Italia, che ha scelto di lasciare alle spalle una formazione economica per intraprendere un cammino artistico intimo e profondo. Spinta dalla necessità di tradurre l’invisibile in immagine, ha sviluppato una pittura meditativa e materica, in cui ogni gesto è carico di significato. Utilizzando acrilici, pigmenti, pasta screpolante e foglia d’oro, GAS crea superfici vibranti, attraversate da crepe che raccontano il tempo e la trasformazione. La sua arte non illustra, ma evoca: ogni opera è un invito al silenzio, uno spazio in cui fragilità e resistenza si fondono in un linguaggio spirituale. Le screpolature diventano simboli di sacralità e rivelazione, mentre la luce, riflessa nei dettagli dorati, accompagna lo spettatore in una dimensione contemplativa. I suoi colori, intensi e trattenuti, aprono varchi interiori, e i titoli delle opere fungono da soglie simboliche, introducendo a un tempo altro, sospeso tra materia e spirito. Le sue creazioni sono state esposte in Italia, Svizzera, Argentina e Regno Unito, in spazi dedicati alla sperimentazione e al dialogo tra linguaggi contemporanei. Ogni mostra è vissuta come parte integrante del suo processo creativo, un’occasione per condividere non solo l’opera ma lo stato d’animo da cui essa scaturisce.
Cos’è per te l’arte?
L’arte per me è un linguaggio che nasce dove le parole si spezzano. È ascolto, è silenzio che prende forma. È il luogo in cui la materia diventa memoria e il tempo si rivela. Una soglia tra il visibile e l’invisibile, dove l’essere si lascia attraversare.
Cosa ti ha spinta ad abbandonare il tuo percorso economico per dedicarti completamente all’arte?
Sono laureata in Economia e Commercio con una specializzazione in marketing, e per molti anni ho lavorato nell’ambito commerciale estero e dello sviluppo internazionale d’impresa — prima come impiegata, poi come manager e oggi come imprenditrice. Non mi definisco ancora un’artista di professione, anche se in fondo sento che è proprio ciò che voglio “diventare da grande”. Ogni gesto creativo mi riporta a casa: è lì che mi riconosco davvero, in uno spazio di verità che nessun altro linguaggio riesce a contenere. Sto imparando ad ascoltare quella voce interiore che mi guida e alla quale, con sempre più fiducia, mi affido. È un percorso in divenire, un cammino che non si è ancora concluso. Lo raggiungerò? Forse. Ma nel frattempo, camminare verso quell’autenticità è già parte dell’opera.
Qual è stato il momento in cui hai compreso che la crepa, il difetto, potessero diventare simbolo centrale del tuo linguaggio visivo?
Quando ho smesso di cercare la perfezione. La crepa è apparsa come una rivelazione: non come ferita da nascondere, ma come spazio in cui si manifesta la Luce. È lì che ho capito che il “difetto” era in realtà il luogo della verità, dell’essere autentico.
In che modo scegli i materiali da utilizzare, e cosa rappresentano per te elementi come la foglia d’oro o la pasta screpolante?
La scelta dei materiali è per me un processo intuitivo e continuo: la mente creativa è sempre in ascolto, pronta a sperimentare. Ogni materiale arriva come risposta a un’esigenza interiore, come veicolo per raccontare ciò che non può essere detto con le parole. La pasta screpolante rappresenta il tempo che passa, la trasformazione, la fragile bellezza dell’impermanenza. I pigmenti dorati e, talvolta, la foglia d’oro evocano una luce interiore, quella che resta nascosta agli occhi ma che può essere rivelata attraverso lo sguardo dell’anima. Utilizzo anche sabbie, paste strutturali, pietra pomice, caffè: materiali organici, vivi, che nascono spesso dall’osservazione della natura, inesauribile fonte di ispirazione. Le sue texture, i suoi ritmi e silenzi mi parlano continuamente e mi guidano nel gesto.
La tua pittura è spesso definita meditativa: quali pratiche interiori accompagnano il tuo processo creativo?
Prima di dipingere, spesso cammino in silenzio, respiro profondamente, ascolto ciò che si muove dentro e fuori di me. Il mio processo è lento, quasi rituale: entro nello studio come in un tempio, con rispetto e apertura. Scrivo parole che poi svaniscono, ascolto musica sacra o suoni che mi aiutano a centrarmi. Accendo spesso anche incenso, per purificare lo spazio e creare un’atmosfera di raccoglimento, in cui la materia possa parlare. Il gesto pittorico nasce in modo istintivo, guidato da sensazioni sottili, da qualcosa che non è tangibile né razionale. Mi lascio trasportare da una corrente invisibile, come se la mano sapesse prima della mente. L’atto creativo diventa così un’esperienza di connessione profonda, che mi porta su livelli vibrazionali più alti, dove l’io si fa da parte per far spazio a qualcosa di più vasto. L’opera nasce da questo ascolto, da questo lasciarsi attraversare, come un dialogo con l’invisibile.
Come nasce un titolo delle tue opere e che ruolo ha nella narrazione complessiva del lavoro?
Il titolo arriva quasi sempre alla fine, ma è come se l’opera lo chiamasse. A volte è una parola, altre volte un concetto antico, filosofico o spirituale. Il titolo è parte dell’opera: è la chiave che apre una direzione di senso, senza mai chiudere il significato.
In che modo le tue origini polacche influenzano il tuo sguardo artistico?
Porto con me una memoria collettiva di resistenza, spiritualità e malinconia. L’inverno lungo, il silenzio dei paesaggi, la profondità della tradizione spirituale. Tutto questo vive nella mia arte, anche se in forme astratte. Il mio sguardo è intriso di quella terra.
Che significato ha per te esporre all’estero? Cambia qualcosa nel modo in cui le tue opere vengono percepite?
Esserci altrove è per me un atto di connessione. Vedere le mie opere attraversare lingue e culture è commovente. Cambia lo sguardo, ma non il nucleo. L’arte sa parlare anche dove le parole non bastano. Ogni paese ascolta un’eco diversa.
Hai mai pensato di trasporre il tuo lavoro in altri linguaggi visivi o sensoriali, come la performance o l’installazione?
Sì, a volte. In effetti sento che la mia pittura potrebbe espandersi nello spazio, diventare ambiente da abitare, esperienza da attraversare. L’installazione mi affascina: una pittura che respira nello spazio. Sto coltivando questo pensiero lentamente, come si fa con i semi.
Qual è la reazione più intensa che hai ricevuto da parte di un visitatore o collezionista?
Spesso ricevo parole di apprezzamento legate a ciò che la mia arte fa sentire. Le persone mi raccontano di provare quiete, pace, benessere, di percepire una forma di Bellezza che va oltre l’immagine. La parte che più mi affascina, però, è quando iniziano a raccontarmi cosa vedono nel quadro. In quei momenti, si apre un varco sottile: attraverso l’opera, emerge una lettura del loro essere, come se il dipinto fosse uno specchio interiore. Amo ascoltare quelle narrazioni, perché ogni sguardo diventa una traduzione unica e irripetibile, e spesso io stessa scopro nuovi significati della mia creazione attraverso gli occhi degli altri. È lì che l’arte si compie davvero: nella connessione, nell’intimità silenziosa tra chi crea e chi contempla.
Quali dimensioni del sacro senti di esplorare attraverso la tua pittura?
Il sacro per me è la presenza. La sospensione. Il silenzio carico di senso. Non religioso, ma spirituale. Cerco quel punto in cui l’umano incontra qualcosa di più grande: l’invisibile che ci abita. È lì che la pittura diventa preghiera, anche senza parole.
Descriviti in tre colori.
Blu profondo, come il pensiero. Ocra, come la terra antica. Oro velato, come la Luce nascosta.








