Aldo nasce a Messina nel 1989 e cresce in Calabria, dove fin da giovane coltiva una forte inclinazione per l’arte. Nonostante le pressioni familiari verso un percorso più tradizionale, a soli 17 anni lascia la sua casa per inseguire il sogno artistico. Inizia così un lungo viaggio che lo porta prima a Roma, poi a Bologna, Piacenza, Milano e infine a Parigi, dove partecipa a numerose esposizioni, perfezionando il proprio stile e arricchendo la sua visione creativa. Terminata l’esperienza parigina, sceglie di tornare nella sua terra d’origine, stabilendosi vicino al mare per vivere in simbiosi con la natura e dedicarsi completamente alla pittura. Si definisce il “Pittore ancora vivo”, un’espressione che rivendica il desiderio di essere riconosciuto nel presente, rifiutando l’idea romantica dell’artista celebrato solo post mortem. Il suo stile è fortemente influenzato dal surrealismo francese, con richiami evidenti a Modigliani, Chagall e Magritte. Le sue opere si distinguono per l’uso vivace del colore, le pennellate rapide e la marcata intensità emotiva e simbolica. Attraverso un linguaggio visivo che esplora il confine tra sogno e realtà, Callà crea immagini che evocano emozioni profonde e atmosfere oniriche. Curatori e docenti d’arte gli attribuiscono la nascita di una nuova corrente artistica, il Pareidolismo, fondata su una tecnica innovativa incentrata sul soggetto dell’occhio, simbolo ricorrente nei suoi lavori. Callà ha scelto di non svelarne mai il significato, lasciando che sia lo spettatore a cogliere, secondo la propria sensibilità, figure familiari in forme apparentemente astratte. Nel 2023 compie un gesto clamoroso, rifiutando il premio “Miglior artista dell’anno”. Un atto di rottura che denuncia apertamente le distorsioni del mercato dell’arte contemporanea, da lui definito un sistema corrotto da favoritismi, riciclaggio e ipocrisie. Con questa scelta, riafferma la sua visione di un’arte libera, sincera e lontana da compromessi. Le sue opere sono oggi presenti in collezioni private a Dubai, Parigi, Ginevra e Tel Aviv, testimoniando il riconoscimento internazionale di un percorso artistico coerente e controcorrente.
Cos’è per te l’arte?
Un modo per restare umano. L’arte non è una professione, non è un’estetica e non è nemmeno un linguaggio. È una ferita che non si chiude mai. È il tentativo disperato di restituire al mondo un’immagine più vera della realtà, anche quando fa male. Soprattutto quando fa male.
Cosa ti ha spinto, a soli 17 anni, ad abbandonare tutto per inseguire l’arte?
L’urgenza. Non c’era un piano, né un’idea romantica del sacrificio. C’era solo un’urgenza insopprimibile, come se ogni giorno passato altrove fosse una menzogna. Ho lasciato tutto, amici, la famiglia, i luoghi noti, perché era impossibile restare. L’arte non era una scelta: era una necessità.
Cosa cercavi in ogni città in cui ti sei trasferito, e cosa hai trovato invece?
Cercavo una casa, ma trovavo specchi. Ogni città mi ha mostrato una parte di me che non conoscevo, e quasi mai era qualcosa di rassicurante. Roma mi ha insegnato il caos, Bologna la solitudine intelligente, Piacenza il silenzio, Milano l’industria dell’apparenza. Parigi, per ultima, mi ha ricordato quanto può essere dura e poetica insieme la distanza. In nessuna ho trovato ciò che cercavo, ma in tutte ho trovato pittura.
Perché l’occhio è diventato il centro del tuo linguaggio pittorico?
Perché non mente. L’occhio è il solo organo che guarda e viene guardato allo stesso tempo. È testimone, bersaglio e portale. Nei miei quadri l’occhio non è simbolo: è presenza. È ciò che resta quando tutto crolla. È la prova che qualcuno ha visto davvero.
Cosa significa per te essere un “pittore ancora vivo”?
Significa rifiutare di diventare una caricatura accettabile del proprio dolore. Significa non piegarsi al sistema dell’arte che vuole artisti funzionali, digeribili, postumi. Essere un pittore ancora vivo è un atto di resistenza. E anche una promessa: non ho ancora detto tutto.
Qual è il confine tra sogno e realtà nelle tue opere?
Non c’è confine. Le mie immagini si muovono su quel bordo sottile in cui la realtà si piega su se stessa e inizia a somigliare a un sogno sporco, imperfetto, ma autentico. L’inconscio e il presente si sovrappongono, e quello che ne viene fuori non è spiegabile, solo visibile.
Hai mai pensato di spiegare almeno una volta il significato nascosto dei tuoi simboli, o credi che togliere il mistero significhi togliere forza all’immagine?
L’immagine non ha bisogno della mia voce. I simboli sono fatti per risuonare, non per essere tradotti. Spiegare tutto è un atto di controllo, e io non voglio controllare l’esperienza dello spettatore. Preferisco lasciare aperture, crepe, zone d’ombra. È lì che l’opera comincia a vivere.
Come vivi oggi il rapporto con la Calabria dopo aver vissuto in città così diverse?
È un rapporto irrisolto, come tutte le origini. La Calabria è la mia frattura e la mia forza. La sento nel silenzio, nella luce obliqua, nella diffidenza antica. Ma ci torno come si torna a un sogno che si è interrotto troppo presto. Non per nostalgia, ma per capire da dove sono partito davvero.
Cosa ti ha portato a rifiutare un riconoscimento così importante nel 2023, e cosa speravi accadesse dopo quel gesto?
L’ipocrisia. Non volevo essere premiato da un sistema che neutralizza tutto ciò che riconosce. Ho rifiutato per difendere la mia opera dalla retorica. Non mi interessava lo scandalo né la provocazione. Questi gesti devono aprire un dubbio, anche piccolo, in chi continua a confondere successo con verità.
In che modo il concetto di pareidolia ha trasformato il tuo modo di dipingere e guardare il mondo?
La pareidolia mi ha insegnato che l’occhio umano è un creatore instancabile di significati. Vede volti dove non ce ne sono, cerca senso nel caos. Da allora dipingo immagini che non si impongono, ma si rivelano. Voglio che lo spettatore si senta visto mentre guarda. Che si riconosca in qualcosa che non sapeva di essere.
C’è mai stato un momento in cui hai pensato di smettere?
Ogni giorno. Ma smettere per me sarebbe come smettere di respirare. Ci sono stati momenti di crollo, di stanchezza profonda, in cui ho odiato la pittura per quanto mi chiedeva. Ma poi capivo che non era lei a chiedere: ero io. E allora riprendevo, anche solo per non perdermi del tutto.
Cosa pensi quando scopri che un tuo quadro è finito in una collezione a migliaia di chilometri da te?
Penso che ha trovato un’altra vita. I miei quadri non mi appartengono davvero. Quando lasciano il mio studio, non sono più miei. Se finiscono lontano, spero solo che qualcuno li guardi davvero. Ma sì, c’è anche un’ironia amara: spesso finiscono in luoghi dove io stesso non potrei permettermi nemmeno di entrare. Eppure ci sono, anzi: ci sono proprio loro. Forse è un modo per esserci senza chiedere il permesso.
Come immagini il futuro della tua pittura?
Non lo immagino: lo custodisco. So solo che continuerà a mutare come muta la pelle. Sarà più essenziale, forse più spietata. Ma non sarà mai addomesticabile. Non cerco un’estetica nuova, cerco una verità che ancora non so dire. E quando la troverò, cambierà tutto di nuovo.
Descriviti in tre colori:
Grigio cenere, perché tutto in me parte da una combustione — qualcosa che è bruciato, ma non si è spento. Rosso cupo, perché sotto la superficie c’è sempre una ferita, una forza che pulsa, che non si mostra subito. Blu sporco, perché la malinconia non è tristezza: è memoria che non smette di guardare.





