Alessandra, torinese classe 1991, è una scrittrice e artista visiva la cui ricerca si muove tra letteratura, arte e comunicazione. Dopo una formazione artistica al Primo Liceo Artistico di Torino e studi musicali in fagotto, ha proseguito il suo percorso professionale nella comunicazione e nella grafica, integrando competenze diverse in un approccio creativo fortemente sensoriale. Autrice di tre romanzi — Un giorno al contrario, Likes di sto Mazzo e Anime Riciclate — esplora temi come la memoria, l’identità e la trasformazione emotiva. La sua scrittura, apprezzata anche dalla critica televisiva, si distingue per l’introspezione e l’attenzione al dettaglio. Parallelamente porta avanti una ricerca visiva che si concretizza nel progetto Deformazioni, una riflessione sull’identità e la sua mutazione nel tempo. Nel 2024 ha realizzato l’opera Greenpulse, vincitrice del concorso “Cabine d’Artista” promosso da Iren, e si è classificata tra i finalisti nel concorso di saggistica “L’economia diversamente spiegata”. La sua poetica attraversa i linguaggi con uno sguardo lucido e profondo, restituendo una visione del mondo sensibile e contemporanea.
Cos’è per te l’arte?
L’arte è uno sguardo che scava, una fenditura nel reale da cui passa la verità. Non è decorazione, ma necessità. È la forma che prende una resistenza, una carezza o un grido – dipende dal momento, ma è sempre una rivelazione. Per me, l’arte è un modo di esistere con più coraggio.
Come nasce l’intuizione che trasforma un’emozione in parola scritta o immagine visiva nel tuo processo creativo?
Nasce dal silenzio. Prima ancora di prendere in mano la penna o il pennello, osservo, trattengo, lascio sedimentare. Poi qualcosa si muove, come una vibrazione precisa – un dettaglio che si impone, una parola che torna, un’immagine che pulsa. L’intuizione per me non è mai frutto di calcolo: è un’urgenza che si manifesta, e a quel punto non posso fare altro che darle corpo.
In che modo la tua esperienza musicale ha influenzato il ritmo e la struttura della tua scrittura?
La musica mi ha insegnato il respiro. Ho studiato fagotto per anni, e quell’esperienza ha modellato profondamente il mio modo di scrivere. La pausa, il tempo, l’ascolto del silenzio tra le parole, tutto questo deriva da lì. Anche quando scrivo, penso in termini di partitura: ogni frase deve avere una dinamica, un ritmo interno, un contrappunto.
Deformazioni sembra riflettere un pensiero critico sulla società contemporanea: come scegli i simboli visivi che la rappresentano?
Li scelgo lasciandomi attraversare. Non cerco mai il simbolo in sé: è lui che si manifesta mentre ascolto ciò che mi disturba, ciò che viene distorto nel mondo. Uso elementi della cultura pop, oggetti quotidiani, volti apparentemente familiari, ma li smonto, li scosto, li piego. Voglio che lo spettatore senta uno spostamento, un disagio fertile. Deformare è anche un modo per far riaffiorare ciò che si voleva nascondere.
Cosa significa per te “narrare il dolore con delicatezza” e in che modo riesci a mantenere autenticità senza cadere nella retorica?
Delicatezza non significa edulcorare, ma scegliere una lente che rispetti. Quando racconto il dolore, cerco sempre la verità emotiva prima di ogni altra cosa. Non mi interessa scioccare né consolare: voglio restare fedele all’esperienza, anche se scomoda. La scrittura autentica non ha bisogno di orpelli, semmai di precisione e ascolto profondo.
Il tuo percorso attraversa mondi diversi come editoria, arte visiva e comunicazione. In quale di questi senti di esprimere al meglio te stessa?
In realtà, mi sento più completa quando riesco a farli dialogare. Le parole da sole non mi bastano, ma neanche le immagini. Ho bisogno di contaminare, di attraversare i linguaggi. Quando scrivo pensando a un quadro o dipingo ascoltando le pause di un testo, è lì che mi sento esattamente dove devo essere.
C’è un filo invisibile che lega il personaggio di Greenpulse alla tua produzione letteraria?
Sì, Greenpulse è il mio modo di parlare al mondo in una lingua adatta ad ogni età. È un personaggio che nasce dall’osservazione della nostra Terra nutrendosi di un tema molto importante. È la mia maschera-verità sulla sostenibilità.
Quale ruolo attribuisci alla sostenibilità, non solo ambientale, ma anche emotiva, nelle tue opere?
Un ruolo centrale. Mi interessa esplorare forme di resistenza che siano anche forme di cura. La sostenibilità emotiva è quella capacità di restare presenti senza consumarsi, di restituire qualcosa al mondo senza svuotarsi. Le mie opere provano a suggerire domande, a creare spazi di ascolto, a non aggiungere solo rumore. Credo che oggi più che mai sia necessario narrare anche con la responsabilità di chi crea ferite o guarigioni.




