Anna è un’artista italiana che ha coltivato la passione per l’arte fin dall’infanzia, esplorando da autodidatta la pittura e l’illustrazione e sviluppando uno stile personale ricco di espressività. Accanto alle arti visive, ha intrapreso un percorso legato al cinema e al teatro, frequentando corsi di recitazione, regia e sceneggiatura, che l’hanno portata a realizzare spettacoli teatrali e cortometraggi sperimentali. Nel 2005 ha partecipato al Torino Film Festival come regista e attrice con i corti Cut Out e Tentazioni Diplomatiche. Un punto di svolta arriva nel 2012, durante un viaggio in Umbria, quando visita Deruta e incontra il Maestro Romano Ranieri, avvicinandosi così all’arte millenaria della maiolica. Dopo un lungo percorso formativo, lavora come decoratrice in un’importante azienda ceramica, esperienza che le permette di affinare la tecnica e comprendere le dinamiche produttive. In seguito, dà vita al progetto Colori di Anna, una linea di ceramiche e maioliche artigianali dal carattere unico, riconoscibili per i colori vivaci e i contrasti decisi, capaci di coniugare tradizione e contemporaneità. Dal 2014 espone in numerose collettive a Viterbo, città in cui vive, e nel 2018 inaugura la sua prima personale, anch’essa intitolata Colori di Anna, ottenendo un grande riscontro di pubblico. Durante la pandemia partecipa a diverse esposizioni virtuali organizzate da Artcom Expo International e dal C.U.C.B.A., che contribuiscono a far conoscere il suo lavoro a livello internazionale. Il suo percorso oltreconfine si consolida nel 2022, quando viene invitata dal Club UNESCO del Dipartimento del Pireo e delle Isole a esporre alla EV Gallery di New York, dove la sua opera City riceve un premio dal Presidente Ioannis Maronitis. Seguono altre prestigiose esposizioni con lo stesso Club UNESCO: ad Atene, presso il Centro Culturale Marianna V. Vardinogiannis; a Dubai, alla Kanvans Digital Art Gallery; al Teatro Municipale del Pireo per la mostra Sea Speaks to the Soul; e nuovamente ad Atene, presso il Centro Culturale Camini. Le sue opere sono state apprezzate anche in Sud America, India e Corea del Sud, ottenendo riconoscimenti, premi e menzioni speciali. In particolare, City è stata selezionata per la mostra BIAF New Wave ECP Exhibition in Corea del Sud. Nel 2024 ha ricevuto il Premio BIEAF World Artist, conferito dagli organizzatori del BIEAF Festival, che ne ha consacrato l’originalità e la forza espressiva a livello globale.
Cos’è per te l’arte?
Per me l’arte non è solo un linguaggio o un’espressione: è la mia vita. È ciò che dà senso ai miei giorni, il filo invisibile che tiene insieme tutto, anche quando tutto sembra andare in pezzi. Nei momenti più bui, quando ogni altra certezza vacillava, l’arte è stata sia via di fuga che salvezza. Creare non è un atto estetico, è un’urgenza profonda, viscerale. È il mio modo di respirare, di affrontare la gioia e il dolore, il silenzio e il caos. Senza arte mi sentirei incompleta. Con l’arte, mi sento viva.
Qual è stata la scintilla che da bambina ti ha fatto avvicinare al mondo dell’arte?
Credo che l’arte sia sempre stata dentro di me, come un’eredità silenziosa. Mio padre era un artista, e prima di lui tanti altri nella famiglia: chi scolpiva, chi ricamava, chi cuciva con una maestria che rasentava la poesia. Mani che trasformavano la materia in bellezza, e io, da piccolissima, ne ero affascinata. La scintilla vera è stata mio padre. Fu lui a regalarmi i primi colori, come se mi stesse passando un testimone. Ricordo l’emozione di quei momenti: il profumo dei pastelli, il gesto di stendere il colore sul foglio bianco, la libertà assoluta di creare. Era magia, ed era mia. Anche fuori da casa il mio talento è stato riconosciuto: già all’asilo e poi alle elementari, ho incontrato maestre sensibili che hanno visto qualcosa in me e mi hanno sempre incoraggiata a coltivarlo. Quegli sguardi di approvazione, quei piccoli gesti di fiducia, hanno avuto un impatto enorme. Mi hanno fatto capire che ciò che sentivo dentro aveva un valore. Il mio avvicinamento all’arte non è stata una scelta, ma un destino naturale. Un richiamo antico che ho semplicemente seguito, passo dopo passo, lasciandomi guidare da quella scintilla che, ancora oggi, continua a bruciare.
In che modo la tua esperienza nel cinema e nel teatro ha influenzato il tuo linguaggio pittorico e visivo?
Il mio linguaggio pittorico e scultoreo, spesso istintivo e astratto, nasce dallo stesso terreno da cui sono germogliate le mie esperienze teatrali e cinematografiche. Anche quando scrivevo per la scena o per lo schermo, le mie storie prendevano spesso una piega surreale, a volte cinica, altre ironica, ma sempre profondamente emotiva. Emozioni forti — paura, disperazione, felicità — mai raccontate in modo diretto. Preferivo evocarle, farle emergere nei vuoti, nei silenzi, nei non detti. Lo stesso accade nella mia arte visiva. Non mi interessa rappresentare ciò che provo in modo realistico: cerco piuttosto di restituire un clima emotivo, una tensione, un’atmosfera. Qualcosa che lo spettatore può sentire, anche senza comprenderlo fino in fondo. Il teatro mi ha insegnato la potenza del silenzio, della presenza. Il cinema mi ha dato il senso della composizione, della sospensione del tempo. Tutto questo vive ancora nelle mie opere: a volte mi rendo conto che un quadro astratto sembra quasi una scena in attesa che qualcosa accada — un prima e un dopo suggeriti, mai detto esplicitamente. Non è un caso che i miei riferimenti siano visionari come Fellini o Pirandello. In Fellini trovo quello sguardo onirico e grottesco che amo. In Pirandello, l’ambiguità dell’identità, la verità nascosta dietro le maschere. Sono due universi che hanno nutrito la mia sensibilità e che, ancora oggi, abitano la mia arte — qualunque sia la sua forma. Credo che tutto il mio lavoro, visivo, teatrale o narrativo, nasca dallo stesso impulso: trasformare emozioni complesse in forme libere, capaci di accogliere anche le proiezioni di chi guarda.
Cosa hai scoperto di te stessa entrando in contatto con la tradizione della maiolica a Deruta?
Gli anni trascorsi a Deruta sono stati un vero incanto. Forse i più felici della mia vita. È lì che, grazie al maestro Romano Ranieri — prima guida severa, poi amico sincero — ho capito chi fossi davvero come artista. All’inizio eravamo mondi lontanissimi: io con il mio stile astratto, libero ed esplosivo; lui, custode rigoroso di una tradizione secolare. Eppure, qualcosa è cambiato. Romano ha saputo guardarmi oltre le apparenze, e io ho imparato ad ascoltare. È nato un dialogo, profondo e vero. A Deruta ho imparato la tecnica autentica della maiolica: fatta di pazienza, precisione, rispetto. Ma per me non è mai stata solo esecuzione. Quel sapere antico è diventato il mio punto di partenza. Ho iniziato a trasferire i miei disegni su piatti, vasi, superfici che sembravano accendersi sotto le mani. Ogni oggetto diventava una mappa emotiva, un viaggio interiore. Mi sorprendevo di me stessa: io che sono per natura un po’ pigra, lì mi alzavo all’alba con il desiderio irrefrenabile di correre alla scuola di Romano. Non volevo perdere nemmeno un minuto di quel tempo prezioso. A Deruta ho capito che l’arte non ha confini quando nasce da un’urgenza autentica. E che anche la tradizione più radicata può diventare terreno fertile per qualcosa di profondamente nuovo. In fondo, ho scoperto che non c’è contrasto tra radici e visione: c’è solo dialogo. E in quel dialogo, ho trovato la mia voce.
Quali emozioni desideri trasmettere attraverso la linea Colori di Anna e i suoi contrasti cromatici così vivaci?
Quando ho iniziato a dipingere la linea Colori di Anna, non avevo un progetto preciso. Come spesso accade nel mio lavoro, mi sono lasciata guidare dall’intuizione. Le forme sono nate con naturalezza, i colori si sono imposti con forza, come se sapessero già dove andare. Solo osservandole tutte insieme, ho capito: quei colori intensi, quei contrasti accesi, mi parlavano di isole. Non isole geografiche, ma isole emotive. Luoghi puri, pieni di energia, luce e identità. Da qui l’idea di dare a ogni maiolica il nome di un’isola, come metafora di unicità e intensità. Le emozioni che desidero trasmettere sono molteplici, ma tutte legate alla pienezza della vita. C’è il rosso, che vibra di passione, coraggio, presenza. Il verde, che porta equilibrio, natura, respiro profondo. Il blu, che evoca vastità, orizzonti, libertà. E il giallo, solare e spontaneo, che richiama la gioia pura e la leggerezza dell’essere. Mi piace pensare che ogni maiolica sia una piccola isola dell’anima: un frammento di emozione, uno spazio vivo da abitare con lo sguardo e con il cuore. Vorrei che chi le osserva sentisse qualcosa di immediato: un’energia, una bellezza sincera, uno stupore difficile da spiegare — come quando si arriva su un’isola sconosciuta e si resta senza parole.
Come vivi il rapporto tra la tradizione artigianale della ceramica e l’esigenza di sperimentazione contemporanea?
Il mio legame con la tradizione artigianale della ceramica è profondo, quasi viscerale. Mi riconosco pienamente in quel sapere antico fatto di gesti tramandati, ritmi lenti, attenzione alla materia. La ceramica è un linguaggio con radici solide, che rispetto e attraverso cui continuo a esprimermi. Non mi considero una sperimentatrice in senso estremo. Non sento il bisogno di forzare la tecnica o cercare soluzioni concettuali a tutti i costi. Preferisco restare fedele a un’essenzialità del fare, che mi permette di comunicare in modo autentico. Detto questo, ho avuto il privilegio di collaborare con artisti che fanno della sperimentazione la loro cifra. Lavorare accanto a loro mi ha arricchita, mi ha fatto osservare processi diversi, mi ha stimolato. Sono esperienze che aprono lo sguardo, ma non hanno snaturato il mio percorso. Anche se le mie opere nascono da una matrice tradizionale, parlano un linguaggio attuale. La modernità, per me, non risiede nella rottura, ma nella coerenza con cui si dà forma a un pensiero.
Quale ricordo porti con te dalla tua prima mostra personale a Viterbo?
La mia prima mostra personale a Viterbo è un ricordo indelebile, anche perché non è stato semplice arrivarci. Inizialmente ho incontrato una certa resistenza da parte delle istituzioni locali, in particolare dal Comune. Purtroppo, Viterbo non è sempre una città accogliente verso gli artisti contemporanei: spesso c’è una chiusura culturale che rende difficile proporre progetti nuovi o far emergere voci fuori dagli schemi. Ma non mi sono arresa. Ho creduto profondamente in quel progetto, e con determinazione sono riuscita a portarlo a termine. Alla fine, è stata un’esperienza sorprendente e gratificante: il pubblico ha risposto con entusiasmo, le persone si sono fermate, hanno fatto domande, si sono incuriosite. Ricordo con particolare piacere la presenza di molti visitatori stranieri, che hanno mostrato un sincero interesse per il mio lavoro. Alcuni di loro sono diventati contatti preziosi, con cui ancora oggi mantengo una relazione fatta di scambi, riflessioni e, in alcuni casi, nuove opportunità. Quella mostra è stata una piccola grande conquista. Non solo artistica, ma anche umana: una prova concreta di come, con ostinazione e amore per ciò che si fa, sia possibile trasformare un contesto difficile in un’occasione di crescita.
Che significato ha avuto per te ricevere un premio a New York dal Club UNESCO con l’opera City?
Esporre a New York è sempre stato uno dei miei sogni più grandi. Ricordo ancora il mio primo viaggio lì, nel 2001: passeggiando tra i musei e le gallerie, respirando quell’atmosfera cosmopolita, dentro di me è scattato qualcosa. Ho sognato, con una certa incoscienza forse, che un giorno anche una mia opera potesse far parte di quel mondo. Quando è arrivata la proposta di esporre a New York — nientemeno che dal Club UNESCO — ero incredula e felicissima. Già la selezione era un riconoscimento importante, ma ricevere poi il premio per la mia opera City è stato incredibile. Una sorpresa che mi ha commossa. City è un lavoro a cui tengo molto: racconta il caos e l’armonia delle metropoli, l’energia che pulsa tra linee e forme. Sapere che proprio quest’opera ha toccato la sensibilità di chi osservava, dall’altra parte del mondo, ha avuto per me un significato profondo. È stata una conferma, ma anche un incoraggiamento. In quel momento ho sentito che il mio linguaggio — così personale, a volte “non convenzionale” — era riuscito a creare un ponte tra me e gli altri. E questo, per me, è il senso più alto dell’arte.
Che cosa ti ha colpito maggiormente delle esperienze espositive a Dubai e ad Atene?
Le esposizioni a Dubai e ad Atene sono state esperienze di grande valore, sia artistico che umano. Mi ha colpito innanzitutto l’affluenza: in pochi giorni, tantissime persone hanno visitato le mostre. Un pubblico internazionale, curioso, attento, partecipe. È stato emozionante sapere che le mie opere sono state viste e apprezzate da occhi provenienti da culture molto diverse tra loro. Ad Atene ho partecipato con due opere a cui sono molto legata: Emozioni e Anime. A Dubai, invece, ho esposto Nuovi Orizzonti, un lavoro che rappresenta per me un’apertura al cambiamento, alla scoperta, al futuro. Entrambe le mostre sono state organizzate dal Club for UNESCO of Piraeus and Islands, una realtà che stimo profondamente. Ogni evento curato da loro si distingue per qualità, professionalità e visione. Nulla è lasciato al caso: ogni artista viene valorizzato, ascoltato, sostenuto. Anche a distanza, si percepiva l’energia collettiva, il rispetto, la voglia di costruire qualcosa che andasse oltre l’esposizione in sé. Era un progetto corale, culturale, emotivo. Un grazie speciale va al Presidente, il Signor Ioannis Maronitis, per la fiducia e per l’instancabile lavoro di promozione dell’arte a livello internazionale. Spero con tutto il cuore di tornare presto a collaborare con loro.
Quale valore attribuisci ai riconoscimenti ricevuti in Corea del Sud e al Premio BIEAF World Artist?
Essere riconosciuta in Corea del Sud con il Premio BIEAF World Artist è stata un’emozione profonda. La mia arte nasce da un impulso intimo, spesso lontano da logiche strategiche o commerciali. È un linguaggio personale, quasi istintivo. E sapere che ha parlato anche dall’altra parte del mondo mi ha toccata nel profondo. Non è solo un premio: è la prova che l’arte autentica può attraversare ogni confine. Che, anche se nasce in silenzio, anche se è astratta o “diversa”, può arrivare dritta al cuore di chi guarda. Quel riconoscimento è stato come un ponte invisibile tra il mio mondo e quello degli altri. E per me, questo vale più di qualsiasi trofeo.
Se dovessi descrivere la tua arte in tre parole, quali sceglieresti?
Istintiva. Visionaria. Cromatica.
Descriviti in tre colori.
Bianco, rosso e grigio. Bianco, perché ho un animo puro, sincero, trasparente. Non indosso maschere: quello che creo e quello che sono, nascono dalla stessa radice. Rosso, perché la passione è il motore di tutto. Vivo le emozioni in modo intenso, travolgente. Grigio, perché dentro di me c’è anche spazio per la malinconia e la riflessione. Un lato più silenzioso, che spesso si nasconde dietro i colori accesi delle mie opere, ma che è altrettanto autentico.





