Dalila è un’attrice e regista che vive il palcoscenico non come vetrina, ma come necessità vitale. Ha attraversato il teatro, il cinema indipendente e anche grandi produzioni, esperienze che però spesso l’hanno fatta sentire invisibile, come un’ombra utile ma indistinta. Oggi avverte la distanza da un sistema che sembra chiedere più visibilità che visione, più sottomissione che talento. Rivendica un’arte che non sia ornamento ma responsabilità, capace di alzare la voce quando il mondo preferisce il silenzio. Si definisce una professionista che ama troppo per abbandonare il proprio percorso, pur attraversando un momento di forte cedimento e crisi, e che proprio da questa fragilità trae la forza di continuare a cercare verità e coscienza nella sua pratica artistica.
Cos’è per te l’arte della recitazione?
Un atto di presenza assoluta. Il coraggio di abitare un’altra vita senza mai smettere di ascoltare la propria.
Qual è stata la prima volta in cui hai sentito il palcoscenico come una necessità e non come una semplice scelta professionale?
Quando al liceo salì su un palco davanti a 600 persone e con una cassetta della frutta piena di parrucche e costumi, feci l’imitazione di tutti i professori che apprezzarono. “Aprile da quando sei andata via, non c’è più arte in questa scuola.” mi disse un professore che andai a salutare qualche anno dopo.
In che modo il senso di invisibilità che hai provato nelle grandi produzioni ha cambiato la tua visione dell’arte?
Mi ha ricordato che la visibilità non è sinonimo di valore, e che la vera forza è restare fedeli a ciò che si ha da dire anche se nessuno sta guardando.
Cosa significa per te trasformare la fragilità in forza creativa?
Accettarla, invece di combatterla. Lasciare che tremi la voce, e scoprire che proprio lì nasce qualcosa di vivo.
Quali sono i momenti o le esperienze che ti hanno dato più coscienza del ruolo etico dell’artista?
Quando dopo uno spettacolo in cui parlavo di maternità, fuori dal teatro una donna si è avvicinata e mi ha detto :”Sei madre, vero?” cercando complicità ma no, non sono madre. E quando ho rappresentato un corto sul disturbo post traumatico da stress a seguito di una violenza, qualcuno a me molto vicino mi ha confessato di esserne stata vittima. “Mi sei stata vicino più di quanto credi” solo per aver interpretato quel ruolo.
Quando parli di arte come responsabilità, quali temi o battaglie senti più urgenti da portare avanti?
Sicuramente la situazione delle guerre nel mondo e quelle “dentro casa”, dentro il mondo personale di ognuno di noi. Guerre, battaglie, ingiustizie, il potere, la furbizia, i soldi, la fragilità, i social, l’evoluzione del mondo, la tecnologia, la malattia, la morte, il buono, seppur nascosto.
Come riesci a mantenere viva la tua passione anche nei momenti di crisi o cedimento?
Ricordandomi perché ho cominciato. E concedendomi di fermarmi, se serve, per poter tornare.
Qual è la differenza più profonda che percepisci tra lavorare nel cinema indipendente e nelle grandi produzioni?
Cinema indipendente è ambizione o rassegnazione, osare o accontentarsi. Le grandi produzioni sono “facciata”, organizzazione discutibile, rispetto “ad personam”, magagne, mazzette, numeri, fama.
Quali sono i linguaggi espressivi che oggi senti più vicini al tuo modo di raccontare la verità?
Quelli che scavalcano i generi. Dove il comico e il tragico si sfiorano senza vergogna. Mi hanno sempre detto che sono un libro aperto ed è un piacere seguire le mie vicissitudini e il mio modo essere è sempre stato tragicomico. Per questo amo il clown teatrale.
C’è un’artista o un’opera che ti ha fatto sentire meno sola nel tuo percorso?
In questo momento attendo l’ultimo album di Caparezza. E’ lui il mio artista vivente preferito. Se mi penso “in un’altra epoca” lontana ti dico Django Reinhardt o Fabrizio De André (sempre per la musica). Dal punto di vista teatrale-cinematografico oserei dire “La comunidad” ma questa è un’altra storia. Più banalmente Antonio Rezza o “Bestie di scena” di Emma Dante. Troppo vaga come domanda…
Se dovessi immaginare il futuro del tuo lavoro, quale forma o direzione vorresti dargli?
La forma la immagino incerta, in espansione e assolutamente malleabile. La direzione, beh, che sia sempre spontanea e mai dettata da ricatti o qualche altra forma di obbligo morale. Che sia libera, ecco. La libertà è la cosa più importante, l’ingrediente da mettere ovunque in ogni contesto.
Descriviti in tre parole.
Sospesa, vulnerabile, libera.



