Francesca è un’attrice e autrice romana nata e cresciuta nel quartiere di Testaccio, dove ha imparato a trasformare ogni frammento di vita in materia artistica. La sua espressione mescola comicità, introspezione e una profonda spiritualità, restituendo un linguaggio scenico autentico e vibrante. Da adolescente entra nel cast di Non è la Rai, ma l’esperienza si interrompe bruscamente quando il padre la richiama a casa: una separazione che segna il suo percorso e diventa la spinta per affermare con ancora più forza la propria voce artistica. Esordisce giovanissima al fianco di Fiorenzo Fiorentini e Simone Carella, per poi collaborare con Dacia Maraini ne La notte dei giocattoli. Dopo una lunga pausa personale, ritorna al teatro come luogo di rinascita, formandosi con Massimiliano Bruno e Claudia Gerini e riscoprendo la scena come spazio di verità e guarigione. Autrice e protagonista di monologhi comici e drammatici, tra cui Stile e Sospiro, viene notata da Maurizio Battista che la sceglie come comica nel programma Drive In. Nel 2024 partecipa alla serie Tutto chiede salvezza 2 di Francesco Bruni, premiata con il Nastro d’Argento, confermando la sua capacità di passare con naturalezza dal registro ironico a quello più intenso. Nel 2025 pubblica il suo primo romanzo autobiografico, Come in terra così in cielo, un racconto di rinascita e resurrezione accolto con entusiasmo dal pubblico e già richiesto per un adattamento televisivo. La sua scrittura, come la sua interpretazione, è un atto di verità: Francesca La Spina non rappresenta le storie, le attraversa, restituendo al pubblico la potenza di emozioni che oscillano tra luce e ombra, fragilità e forza, morte e rinascita.
Cos’è per te l’arte?
L’arte è l’espressione nuda di quello che abbiamo nell’anima. È l’unico posto dove non puoi mentire, dove non posso mentire. È un bisturi: apre, incide e mostra quello che nella vita cerchiamo di coprire. Se non ferisce o non smuove, per me non è arte: è arredamento, scenografia.
Come è cambiato il tuo modo di intendere la recitazione dopo la lunga pausa personale e il ritorno al teatro?
Prima recitavo per esistere. Come molti attori cercavo attenzione, amore, riconoscimento. Nel mio caso era fame pura: da bambina non l’avevo avuto e cercavo di recuperarlo sul palco. La pausa mi ha ribaltato. Ho capito che dovevo esistere prima, per poter recitare dopo. La recitazione ha smesso di essere un rifugio ed è diventata un atto chirurgico: non cerco più l’applauso, cerco la verità. Anche quando m’incide. Anche quando fa male.
In che modo l’esperienza in Non è la Rai ha influenzato, anche indirettamente, la tua crescita come artista e come donna?
All’epoca ero una ragazzina che voleva entrare dentro lo schermo, letteralmente. Per me era un portale: volevo essere vista, riconosciuta, validata. Quando ne sono uscita a calci, come diceva mio padre “da quel mondo” — ho vissuto per anni la sensazione di non avercela fatta. Il punto però non era il programma. Quell’esperienza ha amplificato una ferita che avevo già: la convinzione di non valere abbastanza per restare. E per molto tempo l’ho letta come una sconfitta. Solo dopo ho capito che quella ferita non era un fallimento: era un segnale. Mi obbligava a guardare il mio vero limite: non credevo in me stessa. E finché non l’avessi affrontato, qualsiasi palco sarebbe stato provvisorio. In sintesi: non mi ha formato, mi ha smascherato. Mi ha costretta a vedere dove cedevo dentro. Ed è proprio da quel vuoto che è nato il mio libro. Non per raccontare una caduta, ma per mostrare cosa succede quando inizi a costruire dall’interno, invece che elemosinare dall’esterno.
Cosa ti ha spinto a scrivere Come in terra così in cielo e quanto c’è di autobiografico nelle sue pagine?
All’inizio l’ho scritto per lo stesso motivo per cui da ragazzina volevo entrare nello schermo: per dare voce a tutto quello che non mi avevano fatto dire. Volevo raccontare la mia versione dei fatti, dire la mia, mettere ordine in una vita dove per anni avevano parlato gli altri. E volevo che la gente capisse una cosa semplice e brutale: la vita non la governa l’esterno, la governa ciò che ci trasformiamo dentro. Ho iniziato con questo intento. Poi il libro ha iniziato a lavorare su di me. Scrivere mi ha costretta a rientrare nei luoghi, nelle persone e nei silenzi da cui ero scappata. Mi ha fatto rivivere chi non c’è più — non in modo nostalgico, ma chirurgico. Li ho riguardati, riaffrontati, risentiti. Perdonati e di conseguenza ho perdonato me. E ho dato un senso anche alle loro assenze. Il punto vero è questo: mentre scrivevo, capivo che il meccanismo “magico” che cercavo in tutta la vita non era fuori. Era interno. Eravamo noi. Era il copione che la famiglia ti scrive addosso quando sei piccolo — e che tu o continui, o spezzi. Questo libro è il primo di quattro proprio per questo: il primo non è la storia, è la scrittura dei copioni, il momento in cui capisci da dove viene tutto. È l’autobiografia, sì, ma è anche l’autopsia della mia origine. E quando finisci l’autopsia, inizi davvero a vivere.
Quando scrivi o interpreti un testo, parti più dall’emozione o dall’osservazione del reale?
Dall’impatto. Se qualcosa mi colpisce nello stomaco, parte l’emozione. Poi la smonto: la guardo da fuori, la analizzo, la disseziono. Il “fuori” è solo la manifestazione. La spiegazione è sempre dentro: nel modo in cui interpreti, trasformi, reagisci. Per questo nel libro cito la preghiera al contrario: non chiedi che cambi il mondo intorno — cambi tu, e il mondo si riallinea. Quando trasformiamo dentro, il fuori non può restare uguale. È un effetto collaterale inevitabile.
Come riesci a bilanciare nei tuoi lavori la forza della comicità e la profondità del dramma?
Non li bilancio. Per me sono la stessa cosa su due frequenze diverse: la comicità è la crepa, il dramma è quello che c’è sotto. A me viene naturale, probabilmente per sopravvivenza. Quando, dopo anni di pausa, sono tornata al teatro, tutti mi facevano notare che il mio modo di raccontare aveva una comicità. Io non me ne rendevo nemmeno conto: era il mio modo di non soccombere. Raccontare le cose in chiave comica è stato il mio modo di esorcizzare quello che avevo vissuto. Non per minimizzarlo — ma per dominarlo. Il meccanismo era questo: io cercavo sempre una soluzione, e mentre la cercavo la raccontavo. Raccontandola, non mi arrendevo. Era un movimento: guardare il dolore, ma tenergli testa. Così, alla fine, la comicità è diventata una cura. Non una fuga dal dramma, ma il modo più onesto che ho per attraversarlo e superarlo.
Che tipo di rapporto hai con il pubblico e quanto conta per te la loro reazione durante uno spettacolo?
Per me il pubblico non è pubblico. Sono persone. Corpi, respiri, storie, ferite. Io lo sento fisicamente: la vibrazione, l’energia, l’urto emotivo che arriva e torna indietro. Quando sono sul palco non penso allo spettacolo: penso al fatto che la vita finisce, e che ogni volta che incontro delle persone ho un tempo limitato per lasciare qualcosa e per ricevere qualcosa. È un patto muto, un contatto vivo. Io non recito davanti alla gente: recito con la gente. Sento quando si aprono, quando resistono, quando trattengono il fiato. E quando scendo dal palco porto con me addosso tutto: le loro vibrazioni, le loro domande, i loro silenzi. La loro reazione non è un giudizio: è una frequenza. Se la senti, vuol dire che sei arrivata dove dovevi arrivare.
C’è un ruolo o un personaggio che senti di non aver ancora avuto l’occasione di interpretare ma che ti appartiene profondamente?
Una donna borderline che diventa santa a suo modo. Un personaggio sporco, contraddittorio, pieno di ferite e di fede. Una che cade male, ma si rialza meglio. In pratica: la mia ombra.
Qual è stato l’insegnamento più importante che hai ricevuto dai tuoi maestri, da Fiorentini a Bruno?
Ne ho avuti tre, e ognuno ha inciso in un punto diverso della mia vita. Fiorenzo Fiorentini è stato il primo. Mi ha buttato su un palcoscenico senza protezioni, subito dopo la scuola. Mi sono ritrovata accanto a lui, un gigante della scena, per un mese intero d’estate. Da lì ho capito che il palco non è un luogo: è una scelta. E che se non ci sali con coraggio, non ci sali proprio. Massimiliano Bruno ha visto la mia comicità immediatamente, ma non si è fermato lì. Un giorno mi ha guardata e mi ha detto: “Tu puoi fare molto di più.” Quel “di più” non parlava di successo, parlava di profondità. Mi ha obbligata a non limitarmi alla risata: a scavare, a usare tutto. Stefania De Santis, con il metodo Chubbuck, mi ha aperto il meccanismo interno. Mi ha insegnato che l’attore non “fa” un personaggio: lo diventa. È lei che mi ha portata dentro la vera introspezione, quella che toglie i trucchi e lascia solo la verità. Mi ha insegnato due cose fondamentali. L’obiettivo del personaggio è il cuore del lavoro. Esistono due archetipi di base: il personaggio di potere e quello d’amore. Da lì ho iniziato a riconoscere la mia storia in ogni ruolo: cosa avevo vissuto, da dove venivo, cosa stavo risolvendo. La verità è che non sarei l’attrice che sono se non avessi passato tutto quello che ho passato nella vita. Forse quella lunga pausa era parte del processo: l’universo, nel suo modo spietato e perfetto, prepara sempre il terreno prima del salto.
Il teatro per te è più un luogo di cura o di battaglia?
Battaglia. La cura arriva dopo, se arriva. Sul palco io combatto contro i miei fantasmi, non li accarezzo. Il pubblico vede il sangue, non la medicazione.
Come immagini la tua evoluzione artistica nei prossimi anni, tra scrittura e recitazione?
Immagino una cosa molto semplice e molto grande: che Come in terra così in cielo diventi una serie. Non per un fatto di ego, ma per un fatto di verità. La mia storia non è intrattenimento: è un meccanismo umano, ed è universale. E poi c’è un’altra cosa, più privata e più difficile: devo digerire io chi sono. Gli altri l’hanno capito da tempo — registi, attori, gente che mi osserva lavorare. Il punto non è convincere loro: è allinearmi io alla mia identità. La mia evoluzione sarà tutta lì: un lavoro interno, non esterno. Sentirmi finalmente un’attrice nel senso pieno, integro, non nel “ruolo”. Unire quello che scrivo, quello che vivo e quello che porto sul palco. E dare qualcosa al mondo da quel posto lì: non da una maschera, ma da una trasformazione reale.
Descriviti in tre parole.
Verace. Autentica. Viscerale. E aggiungo la quarta, perché fa parte del mio modo di essere e non la posso tagliare. Ne ho pagato pena. Incontenibile.





