FRANK LEBLANCH

FRANK LEBLANCH

Frank è un artista che fa dell’anonimato un tratto distintivo, scegliendo di mantenere la propria identità in ombra per lasciare spazio esclusivamente all’opera. Attivo da circa sei anni e residente a Parigi, dove ha recentemente iniziato a esporre, concentra la sua ricerca attorno al tema della fragilità. Questo fil rouge emerge chiaramente nei materiali che predilige — spine di rosa, acacia, rovi, argilla secca, farina — elementi effimeri e delicati che raccontano il passare del tempo, la forza di gravità e la precarietà dell’esistenza. La sua produzione si offre come terreno di riflessione e interrogazione, aprendo spazi di dialogo e invitando il pubblico a formulare domande per approfondirne i significati nascosti.

Cos’è per te l’arte?

L’arte è un sottile dettaglio, una sensazione effimera, un momento. A volte la bellezza è arte, ma a volte c’è arte nel brutto, nello sporco, nel comune. A volte l’arte è nei musei o nelle gallerie, ma di base è fuori, per strada, sotto gli occhi di tutti, anche se in pochi riescono a vederla. Si dice che l’arte sia per tutti, ma non penso che tutti siano fatti per l’arte.

Cosa ti ha portato a scegliere l’anonimato come parte integrante della tua identità artistica?

L’arte è un binomio composto da artista e opera. Se l’artista scompare, rimane solo l’opera, e solo allora siamo in grado di percepire il suo lavoro senza alcun pregiudizio. L’anonimato è mistero e, come nella fede, il mistero seduce, attira e incuriosisce.

In che modo i materiali fragili che utilizzi influenzano il processo creativo e il risultato finale delle tue opere?

I materiali che uso sono una conseguenza del processo creativo. Parto sempre da un’idea, un’immagine o una sensazione e poi cerco un materiale che mi permetta di dare una forma fisica e concreta a quell’idea. Le opere più belle sono sempre quelle che non ti aspetti, quelle che, mentre le realizzi, non sai dove ti porteranno e a volte ti fanno pensare di essere un po’ pazzo. Ma poi, quando sono finite, tutto ha senso, anche gli errori. Un po’ come nella vita: quando ti guardi indietro capisci che tutto aveva senso.

Quale significato attribuisci al concetto di fragilità e come desideri che venga percepito dal pubblico?

È stato il mio terapeuta a notare per primo questo ricorrente tema della fragilità nelle mie opere. Tuttora non riesco a spiegarmelo, considerando anche la difficoltà nello spostarle per le esposizioni, a causa della loro fragilità: un’operazione snervante per una persona ansiosa come me. Non mi aspetto che lo spettatore veda la fragilità nelle mie opere. Voglio che ognuno sia libero di vedere qualcosa di proprio, senza che io indichi una direzione.

Che tipo di relazione cerchi di instaurare con lo spettatore attraverso la scelta di materiali effimeri?

Nessuna relazione, non penso mai allo spettatore quando creo.

Come vivi l’esperienza di esporre a Parigi e cosa ha rappresentato per te questo passaggio?

Esporre la propria arte è sempre bello, anche se molto faticoso, per il corpo e per la mente. Quando esponi un quadro, esponi anche una piccola parte di te, della tua vita e della tua anima creativa. In un certo senso è come se fossi tu, appeso a una parete sotto lo sguardo indagatore dello spettatore.

In che misura il tempo e la sua azione sui materiali fanno parte del messaggio che intendi trasmettere?

Ultimamente rifletto molto sul tema buddhista dell’impermanenza, concetto che ho appreso durante un ritiro di meditazione in una località remota della Toscana. Meditando per diverse ore al giorno, senza alcuna distrazione, ho capito che la vita non è fatta di elementi fissi e di sicurezze: tutto fluisce come l’acqua di un fiume. Tutto è destinato a cambiare. Mi piace pensare che, usando la farina incollata leggermente a un quadro, io possa contribuire a diffondere questo messaggio di caducità di tutte le cose. Accettare l’impermanenza rende l’uomo libero dalla sofferenza.

Ti interessa più la permanenza dell’opera o l’esperienza che suscita nel momento in cui viene vissuta?

Mi interessa soddisfare la mia fame interiore, l’impulso creativo che mi sveglia alle 7 del mattino con una vaga idea e che non mi lascia fermare finché l’opera non è viva. Dopo, perdo gradualmente interesse verso di essa, ma mi piace sempre ammirarla.

Quale direzione pensi possa prendere la tua ricerca nei prossimi anni?

Qualsiasi direzione prenderà, sarò contento se continuerò a non avere vincoli o limiti nella mia espressione creativa. Può anche darsi che smetta di creare per due anni, non importa. A volte fermarsi e non fare nulla è propedeutico alla creazione.

Descriviti in tre colori.

Nero, che evoca il mistero; rosso, che evoca la passione e l’amore; bianco, che evoca la serenità.

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