GIGI MIPI – GILMICO’

GIGI MIPI – GILMICO’

Gigi, in arte Gilmicò, nasce a Pozzuoli 57 anni fa e da alcuni anni vive a Roma. La sua carriera artistica prende avvio negli anni Novanta, dopo aver frequentato laboratori teatrali a Napoli e aver preso parte a spettacoli ispirati sia a testi classici che a opere sperimentali. Interprete versatile, si misura con ruoli drammatici e brillanti legati alla tradizione della Commedia dell’Arte, per poi vivere una breve parentesi circense come clown presso il Circo Errani-Orfei. Proprio da questa esperienza inizia a delineare il suo percorso come attore e artista di pantomima, ideando il personaggio di Gilmicò, un mimo-clown raccontafiabe che diventerà la sua cifra stilistica. Partecipa a diversi festival di living theatre in Italia e all’estero, tra cui Certaldo, Urbino, Montegrotto, Charleroi in Belgio e Avignone in Francia. Nel corso del tempo appare anche in piccoli ruoli per cinema e televisione, con produzioni come Questa casa è piena di specchi, Il tredicesimo apostolo, Sole e Il figlio del secolo per Sky. Negli ultimi anni si dedica anche alla regia e alla sceneggiatura, realizzando cortometraggi e lungometraggi nei quali spesso è anche interprete. Tra i suoi lavori si ricordano È improbabile ma ci spero, Casimiro in villeggiatura, Detto tutto ciò vi saluto e me ne vo’, A Natale tutte le strade portano a casa e il lungometraggio autobiografico Gilmicò, presentato in diversi festival di cinema indipendente. La sua ricerca artistica unisce il linguaggio teatrale a quello cinematografico, mantenendo sempre viva la dimensione poetica e fiabesca del suo personaggio.

Cos’è per te l’arte?

Penso che sia il veicolo spirituale che ti permette di comunicare, attraverso svariate forme, tutte le proprie emozioni e idee, trasformando in maniera creativa il mondo che ci circonda.

Quali sono state le principali ispirazioni che ti hanno portato a creare il personaggio di Gilmicò?

Soprattutto il senso di libertà che lui esprime. Infatti, ho creato questo personaggio un po’ stralunato riferendomi anche a una certa figura di cittadino che si vuole ribellare a un sistema opprimente, che ti vuole lì fermo ad assorbire tutto ciò che gli altri ti impongono di fare. Ecco, lui cerca di superare in forma ironica alcuni schemi rigidi che ci rendono schiavi delle aspettative altrui, rivendicando il valore dell’autenticità, che è l’unica cosa che ci rende persone vere, con buoni propositi.

Come riesci a bilanciare l’aspetto poetico e quello comico nelle tue performance?

Il collegamento tra poetica e comicità ha caratterizzato sempre la qualità di alcuni grandi artisti. Io, nel mio piccolo, sia in passato in alcuni spettacoli sia nelle storie che scrivo, ho utilizzato sempre ciò che serviva meglio. Alla base di tutto c’è il ricordo di un avvenimento triste o malinconico, che diventa subito dopo qualcosa di divertente. Questo contrasto ti permette di rendere significativa una rappresentazione, a dimostrazione che comicità e dramma sono due vasi comunicanti, in quanto la comicità affonda le sue radici proprio nella malinconia.

Quale esperienza circense ti ha lasciato il segno e come ha influenzato la tua arte successiva?

Anche se quella del circo è stata una parentesi di alcuni mesi, è stata determinante per ciò che mi ha insegnato. Sono passati tanti anni, ma ricordo bene gli spettacoli a cui ho partecipato: era il Circo Errani-Orfei e facevo parte del gruppo artistico I Bisbini, clown musicali. Il fatto di entrare in pista e partecipare alle gag è qualcosa che non posso dimenticare. In particolare, ricordo un numero che facevo con l’ombrello che si piegava e il pubblico che si divertiva. Certo, ricordo anche che la vita era un po’ da nomade: si stava nelle roulotte e c’erano tanti personaggi grotteschi. Dopo un po’, per varie questioni, ho lasciato quel mondo, ma mi è servita quell’esperienza, perché la clownerie, la gag, la pantomima mi sono state utili e le ho poi messe a servizio in alcuni contesti di spettacolo.

Tra i festival di living theatre a cui hai partecipato, ce n’è uno che ricordi con particolare emozione?

Sì, circa quindici anni fa ebbi l’occasione di partecipare a un festival in Belgio, precisamente a Charleroi. In quell’occasione decisi di mettere in scena un personaggio conosciuto da tutti, anche lì: Pinocchio. Però, precisamente, era una sorta di marionetta narratrice che raccontava con filastrocche e sproloqui in rima giocosa. Ricordo bene i bambini nella piazza che mi guardavano incuriositi e, anche se non capivano il mio linguaggio, ridevano lo stesso.

Cosa ti ha spinto a passare dalla recitazione alla regia e alla sceneggiatura?

Devo dire che mi sono sempre sentito un po’ regista di me stesso. Anche la scrittura mi ha sempre appassionato. In questi ultimi anni mi sono dedicato alla regia, per lo più di cortometraggi e lungometraggi, perché mi affascinava poter creare storie che poi sarebbero state proiettate attraverso un mezzo audiovisivo. I film, per me, sono viaggi immaginari e realizzarli, anche se sono lavori autoprodotti, ha suscitato in me sempre un interesse particolare. Certo, fare il regista comporta sempre una certa responsabilità, perché hai il compito di gestire un po’ tutto. Comunque, nei miei lavori sono anche interprete, quindi l’impegno è maggiore.

Quale dei tuoi film consideri più rappresentativo del tuo percorso artistico e perché?

Sembrerà strano, ma mi sento di dire che sia stato l’ultimo che ho realizzato: quello dedicato al personaggio che mi ha sempre accompagnato nel mio percorso artistico, Gilmicò. Perché appartiene un po’ a me, alla mia vita, ed è una sorta di biografia in cui racconto alcune fasi e situazioni del mio cammino. Tutto inizia da quando lui lascia il circo e arriva in città, dove si illude di potersi presto inserire in altri contesti. Ma ben presto si accorge che questa realtà, in cui era tornato, presentava aspetti persino più grotteschi del mondo circense in cui aveva vissuto. E tutto ciò è accompagnato da sentimenti nostalgici per ciò che non c’era più e dalla voglia di rilanciarsi come artista.

Come cambia il tuo approccio quando lavori per il teatro rispetto al cinema e alla televisione?

Ovviamente, il teatro rappresenta più la casa dell’attore: è il luogo della parola, è la cassa di risonanza di se stesso, si amplifica sia vocalmente sia gestualmente. C’è quindi un approccio a queste dinamiche, considerando che ti trovi sul palco dinanzi a un pubblico. Al contrario, nel cinema e nella TV si registra tutto: le modalità e i tempi sono diversi e, a differenza del teatro, il giudizio su un tuo lavoro lo potrai sapere solo dopo un po’. In teatro, invece, il risultato lo ricevi immediatamente.

Che ruolo ha per te la fiaba nella società di oggi e come cerchi di trasmetterla attraverso il tuo lavoro?

Oggi la fiaba può avere una funzione molto importante, perché è uno strumento educativo e psicologico, soprattutto per i più piccoli. Li può aiutare a capire il proprio mondo interiore e a esplorare nuovi mondi pieni di valori. Ecco, se si riuscisse a comunicare molto di più attraverso elementi fiabeschi sarebbe molto più bello. Io, personalmente, ho considerato sempre la dimensione fiabesca qualcosa di estremamente importante. Anche nelle storie che scrivo e nei film, l’elemento surreale e fiabesco serve a dare energia a una forma cinematografica. Essendo già il cinema una sorta di grande giocattolo e anche una grande scatola magica fiabesca, l’uso degli effetti speciali, che spesso ho utilizzato nelle mie storie, serve a dare più colore.

Hai un nuovo progetto artistico che sogni di realizzare nei prossimi anni?

Ce ne sarebbero alcuni. Ho sempre sognato di realizzare una serie a puntate il cui protagonista è un ispettore un po’ imbranato ma geniale. E poi anche un film commedia. Nel frattempo, spero di sviluppare qualche buona idea.

Descriviti in tre parole.

Discreto. Creativo. Curioso.

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