GIORGIO RECCHIA

GIORGIO RECCHIA

Giorgio, nato il 14 luglio 1987, è un attore e sceneggiatore originario di Lecco che ha saputo distinguersi nel panorama del cinema indipendente italiano, partecipando anche a produzioni televisive di rilievo nazionale. Affascinato sin da giovane dal cinema action degli anni ’70 e ’80, ha trasformato quella passione in una carriera versatile, incentrata su ruoli intensi e fisici, spesso ispirati al genere d’azione e al fantasy. Debutta nel 2015 con Tommy di Andrea Navicella, per poi affiancare nel 2016 lo stunt coordinator Simone Belli, con cui lavora in numerosi live show e serie televisive, tra cui Made in Italy, trasmessa da Mediaset e Prime Video. Qui interpreta Vittorio, l’autista di un imprenditore coinvolto in un intrigo di scontri armati e atmosfere noir. Parallelamente partecipa a numerosi progetti di genere: dal fantascientifico Stargods di Giorgio Pastore, dove interpreta un alieno guerriero, alla web-serie comico-poliziesca Gunswood District (2018), passando per The Carpenter di Steven Renso, ambientato durante la guerra del Kosovo. Compare anche in un video promozionale del programma Unti e Bisunti con Maurizio Merluzzo e nel 2019 nel film horror-splatter Grand Guignol Madness, seguito da Night of Doom (2020), dove dà vita a un personaggio disturbato in un incubo psicotropo. Il suo progetto più importante è Red, scritto e interpretato dallo stesso Recchia tra il 2019 e il 2020, un cortometraggio action-drama diretto da Alessandro Rindolli, Matteo Pagliarusco e Giulia Reine, selezionato alla 78ª Mostra del Cinema di Venezia. In Red veste i panni di un ex soldato chiamato a redimersi attraverso una missione di salvataggio carica di dolore e vendetta. Sempre a Venezia, nella stessa edizione, partecipa a Breath, opera in computer grafica ispirata al videogioco Half Life, dove interpreta un crudele comandante in un mondo post-apocalittico. Nel 2023 è protagonista di C’era una volta il Basso Medioevo, film fantasy ambientato in epoca medievale e presentato alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia, in cui interpreta Marcus, un condottiero pronto ad affrontare sfide epiche in un mondo sospeso tra storia e leggenda. Giorgio Recchia continua a collaborare con produzioni Mediaset in spot pubblicitari e si cimenta in progetti audiovisivi che coniugano fisicità attoriale, narrazione epica e uno sguardo nostalgico ma attuale al cinema di genere.

Cos’è per te la recitazione?

La recitazione per me non è solo un mestiere. È una necessità. È il modo in cui affronto il mondo, i miei demoni, i miei sogni, i miei vuoti e i miei fuochi. Recitare, per me, è trovare senso nel caos, trasformare il dolore in arte, mettere a nudo l’anima, anche quando fa male. È il mio modo di dire: “Io ci sono. Questo sono io. Questo è il mio viaggio.” E anche quando sono stanco, scoraggiato, deluso, non smetto mai davvero. Perché nel profondo so che questa è la mia verità. Quindi cos’è per me la recitazione? È respiro. È salvezza. È battaglia. È casa. E io… sono un attore. Non perché lo faccio. Ma perché non posso non esserlo.

Qual è stato il momento decisivo che ti ha spinto a trasformare la tua passione per il cinema action anni ’70 e ’80 in una carriera professionale?

Il momento decisivo — quello in cui la passione per il cinema action anni ’70 e ’80 ha smesso di essere solo “passione” ed è diventata urgenza, vocazione, strada da percorrere — non è stato un fuoco d’artificio. È stato un accumulo silenzioso, poi uno schianto. Forse è stato quando mi sono rivisto in quei protagonisti duri fuori e spezzati dentro, eroi solitari che non cercavano applausi ma redenzione. Forse quando ho capito che quei film mi avevano cresciuto più di certi adulti. O forse la prima volta che ho messo piede su un set, e ho sentito che tutto aveva finalmente senso: il sudore, i no ricevuti, il bisogno di raccontare storie con il corpo, con la voce, con lo sguardo. Ma il momento vero… quello preciso… È stato quando mi sono guardato allo specchio e ho detto: “Non posso più aspettare il permesso di nessuno. O adesso o mai più.” Quel giorno ho smesso di sognare il cinema. Ho iniziato a costruirlo. A lottare per lui. A sanguinare per lui.

Come ti prepari fisicamente e mentalmente per interpretare ruoli intensi e fisici, spesso legati all’azione o al fantasy?

La mia preparazione per ruoli intensi — quelli che bruciano muscoli e anima, sia nell’action che nel fantasy — è un rito di trasformazione, non un semplice “allenamento”.

Fisicamente: mi costruisco come una macchina da guerra, ma con intelligenza

  • Allenamento funzionale mirato: ogni movimento è pensato per il personaggio. Se sei un guerriero, ti alleni come un guerriero. Se sei un soldato, lavori come un soldato. Non è estetica: è credibilità in scena.
  • Corpo come strumento narrativo: curo postura, respiro, ritmo. Sudo non solo per essere pronto a combattere, ma per raccontare anche solo camminando sul set.
  • Recito anche mentre sollevi pesi: ogni trazione, ogni corsa, è già un esercizio di presenza scenica. Mi alleno col fuoco negli occhi, come se ci fosse già la camera davanti a me
  • Immersione totale: studio. Mangio il copione. Immagino il personaggio in ogni gesto quotidiano, come se fosse già vivo. Lo porto con me nei silenzi, nei sogni, nel traffico.
  • Meditazione/Visualizzazione: prima di girare, mi isolo. Respiro. Mi spoglio di Giorgio. Indosso la pelle di chi devo essere.
    Lo vedo: le sue cicatrici, i suoi nemici, i suoi fantasmi.
  • Uso del dolore personale: non scappo da ciò che mi ha segnato. Lo uso. Lo trasformo in materia viva.
    Perché so che recitare non è fingere: è mostrare la verità sotto altro nome.In sintesi: E ogni volta che salgo su un
  • set, combatto per qualcosa di più grande di me stesso:ho l’onore di raccontare storie che lasciano il segno

Nel cortometraggio Red, hai interpretato un ex soldato con un passato doloroso. Come ti sei approcciato a questo personaggio così complesso?

Per affrontare un personaggio come l’ex soldato di Red, la chiave è stata partire dalla sua umanità, non dal suo passato militare. Ho lavorato molto sull’idea che il trauma non è solo un ricordo, ma una presenza costante: qualcosa che condiziona il corpo, il modo di respirare, di guardare gli altri. Prima ancora di pensare alle battute, ho cercato di capire cosa si porta dentro un uomo che ha visto e fatto cose che non riesce a raccontare. Ho parlato con veri reduci, ho letto testimonianze e ho studiato come il disturbo post- traumatico influenzi anche i gesti più semplici. Sul set ho deciso di “abbassare il volume” del personaggio: niente esplosioni emotive gratuite, ma una tensione sottile, costante, come se fosse sempre a un passo dal crollare o reagire in modo incontrollato. Questo ha reso ogni suo silenzio più carico di parole non dette.

Cosa ti ha colpito di più nella partecipazione a produzioni come Breath, dove la tecnologia e la computer grafica giocano un ruolo centrale?

Quello che mi ha colpito di più in Breath è stato quanto la tecnologia possa diventare un personaggio invisibile, ma potentissimo, nella storia. Sul set ti trovi spesso a recitare davanti a un green screen, o con oggetti che verranno creati in post-produzione, e questo ti costringe a fidarti totalmente dell’immaginazione: non reagisci a ciò che vedi, ma a ciò che sai che ci sarà. È una sfida particolare, perché non puoi contare sugli stimoli visivi reali, devi costruire tutto dentro di te e mantenerlo coerente in ogni ciak, anche se le riprese sono frammentate. Allo stesso tempo, ho scoperto quanto sia affascinante il lavoro di squadra con la maestosa regia di alessandro rindolli in queste produzioni: attori, regista, supervisori VFX e direttore della fotografia devono sincronizzarsi alla perfezione per far sì che, una volta montato, il mondo digitale e quello reale sembrino un tutt’uno. E qui rindolli sa il fatto suo La cosa più bella? Quando vedi il risultato finale e ti rendi conto che la tua performance è stata integrata in un universo che, sul set, esisteva solo nella tua testa. È quasi come recitare in un sogno che diventa visibile agli altri.

Come riesci a bilanciare i diversi generi in cui lavori, dal fantasy al noir, passando per l’horror e la fantascienza?

Per me il segreto sta nel partire sempre dalla verità emotiva del personaggio, indipendentemente dal genere. Che sia un cavaliere in un mondo fantasy, un detective noir o un sopravvissuto in un horror, la domanda di base è la stessa:

  • Nel fantasy, lavoro molto sull’epica, sulla fisicità e sulla costruzione di un senso di grandezza, quasi teatrale.
  • Nel noir, il focus è sull’introspezione e sui silenzi: qui ogni parola pesa, e la tensione si costruisce nei non detti.
  • Nell’horror, mi concentro sul far vivere la paura dall’interno, senza cadere negli stereotipi della “vittima urlante” o dell’eroe invincibile.
  • Nella fantascienza, unisco immaginazione e rigore: il mondo può essere inventato, ma le reazioni emotive devono essere autentiche. Bilanciare tutto significa non farsi trascinare solo dalle regole del genere, ma usarle per amplificare la verità del personaggio. In fondo, il pubblico si ricorda le emozioni, non le etichette. Però sinceramente mi ispiro tanto a i miei attori preferiti dicaprio e stallone. Mi chiedo sempre loro come li farebbero Hai un ruolo o un progetto che sogni di realizzare in futuro, magari esplorando nuovi ambiti o generi cinematografici? Assolutamente sì: il western è un sogno che porto con me da sempre. Per me non è solo un genere, ma un terreno mitico dove puoi parlare di solitudine, libertà, giustizia e redenzione con un linguaggio visivo e narrativo potentissimo. Mi affascina il contrasto tra l’epicità degli spazi aperti e l’intimità dei conflitti interiori: l’uomo solo a cavallo, circondato da orizzonti infiniti, ma imprigionato nei suoi fantasmi. Ne ho scritto uno e spero un giorno di poterlo girare a Roma già lì fanno con il maestro Emiliano Ferrera.
  • Nel western c’è tutto: azione, silenzi, codici morali rigidi e, soprattutto, la possibilità di raccontare il prezzo che si paga per sopravvivere in un mondo ostile.

Il mio sogno sarebbe interpretare un personaggio alla frontiera, segnato dalla vita, magari un ex pistolero costretto a tornare alla violenza che aveva giurato di lasciare, o un uomo che cerca di proteggere qualcosa di puro in un contesto marcio. O un cacciatore di taglie che magari deve e tra e nella banda di qualche ricercato è lì si ribalta la situazione e questo è un piccolo spoiler del mio film. E, perché no, un western crepuscolare, dove il mito incontra il tramonto e ogni scelta ha un peso definitivo.

Quanto conta per te l’aspetto narrativo nei progetti a cui partecipi, rispetto alla componente visiva o d’azione?

Per me l’aspetto narrativo è il cuore pulsante di qualsiasi progetto. La componente visiva o d’azione può essere spettacolare, ma se sotto non c’è una storia solida, con personaggi tridimensionali e un arco emotivo vero, il rischio è che lo spettatore si emozioni solo per pochi minuti e poi dimentichi tutto. Quando leggo un copione, la prima cosa che cerco è un conflitto autentico e un’evoluzione che abbia senso. Anche in un film d’azione o in una produzione visivamente travolgente, voglio sapere perché il mio personaggio fa ciò che fa e cosa perde o guadagna in quel percorso. Detto questo, l’immagine e l’azione sono strumenti potentissimi per amplificare la narrazione:

  • Una sequenza visiva può raccontare un’emozione senza una sola parola.
  • Un’azione ben coreografata può rivelare la psicologia del personaggio meglio di un monologo. Ma senza una base narrativa forte, anche la scena più spettacolare perde significato. Io credo che la magia avvenga quando storia e immagine si nutrono a vicenda, e ogni scelta estetica nasce da un’urgenza narrativa.

Come vivi il rapporto con il pubblico e la critica, soprattutto dopo esperienze importanti come la Mostra del Cinema di Venezia?

La prima volta a Venezia è stata… un disastro, lo ammetto. Ero impreparato all’impatto mediatico e all’energia travolgente di un evento così grande: interviste, flash, domande che arrivavano a raffica. Avevo un foglio con scritto quello che dovevo dire. Mi sembrava che tutti vedessero ogni mio difetto. Poi, con le altre tre esperienze, qualcosa è cambiato. Ho capito che il rapporto con il pubblico e la critica non è un esame, ma un dialogo. Ho presentato 4 progetti con Matteo pagliarusco e alessandro rindolli. Il pubblico vuole emozionarsi, la critica vuole capire e interpretare, e il mio compito non è piacere a tutti, ma essere onesto con la mia interpretazione. Ho imparato a filtrare i commenti: ad accogliere le critiche costruttive come strumenti per crescere e a lasciare andare quelle distruttive che non portano nulla. E soprattutto, ho iniziato a vivere il festival come un momento di incontro, non di giudizio: un’occasione per scoprire come il mio lavoro arriva agli altri, anche quando la reazione è diversa da quella che mi aspettavo.

Che consiglio daresti a un giovane attore che vuole muoversi nel cinema di genere e in produzioni indipendenti?

Direi tre cose fondamentali, che ho imparato sulla mia pelle.

1. Non inseguire il genere, insegui le storie.

Il cinema di genere – fantasy, horror, noir, fantascienza – offre possibilità incredibili, ma il rischio è di farsi attrarre solo dall’estetica. Cerca copioni con personaggi veri, anche se il contesto è estremo o surreale. Se il personaggio è tridimensionale, il genere diventa solo un amplificatore.

2. Sii pronto a fare tanto con poco.

Nelle produzioni indipendenti spesso mancano soldi, ma c’è un’enorme libertà creativa. Dovrai adattarti, improvvisare e a volte lavorare in condizioni scomode. Prendilo come allenamento: queste esperienze ti danno una resistenza e una versatilità che sul set di un blockbuster valgono oro.

3. Costruisci relazioni autentiche.

Nel cinema indipendente il passaparola è tutto. Lavora con rispetto, cura ogni collaborazione e non sottovalutare nessuno: oggi il fonico o l’assistente alla regia con cui fai amicizia, domani potrebbe essere il regista che ti chiama per il ruolo della vita. E, soprattutto, ricordati che in questo ambiente la passione deve reggere più della pazienza: se ami il genere e credi nel progetto, la fatica pesa meno e il lavoro rimane dentro di te, anche quando le luci si spengono.

Descriviti in 3 parole.

Determinato ostinato visionario…un mix che serve se vuoi fare quello che ho fatto io.

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