ISABELLA ARA

ISABELLA ARA

Isabella è un’artista originaria della Sardegna che attualmente vive e lavora in Austria. La sua ricerca visiva nasce da una profonda passione per l’arte e si sviluppa attraverso un dialogo costante tra formazione classica e sensibilità contemporanea. Dopo un percorso accademico centrato sul disegno dal vero, sul disegno tecnico e sulla scultura, ha scelto di specializzarsi nella pittura acrilica, affinando una tecnica che oggi si traduce in opere intense, caratterizzate da colori saturi e composizioni cariche di significato. Dal 2019 ha iniziato a esplorare anche il linguaggio dell’arte digitale, utilizzando l’iPad come strumento creativo per ampliare le possibilità espressive. Le sue creazioni, profondamente emotive, mescolano la ritrattistica classica con suggestioni surreali, ispirandosi a maestri come Dalí, Caravaggio e Tamara de Lempicka. Attraverso scenari astratti e visionari, affronta tematiche sociali e concetti forti, dando forma a un immaginario vivido che unisce, con leggerezza e rigore, elementi dell’Art Nouveau e dell’Art Déco.

Cos’è per te l’arte?

Per me l’arte è un linguaggio che arriva dove le parole si inceppano. È un modo di guardare il mondo e riscriverlo, a volte con dolcezza, altre con furia. Non ha bisogno di spiegarsi, ma pretende di essere sentita. È uno spazio di libertà assoluta, dove posso essere onesta, imperfetta, o completamente assurda – e va bene così. L’arte non è solo quello che creo, ma anche come vivo: come scelgo i colori nelle cose quotidiane, come ascolto, come reagisco. È la mia maniera di restare viva e sveglia in un mondo che spesso addormenta.

In che modo le tue radici sarde influenzano ancora oggi il tuo lavoro, nonostante tu viva e lavori in Austria?

Le mie radici sarde sono come un filo invisibile che tiene tutto insieme, anche se vivo in Austria da tanti anni. C’è qualcosa nella mia terra d’origine che ritorna sempre nei miei lavori – nei contrasti forti, nei silenzi pieni, nei simboli arcaici che a volte affiorano senza che me ne accorga. La Sardegna mi ha insegnato il valore della solitudine creativa, del tempo lento e della profondità emotiva. Anche quando uso tecniche digitali o affronto temi attuali, sento che dentro c’è sempre quel modo sardo di sentire: istintivo, orgoglioso, poetico ma mai retorico. E anche se oggi lavoro in un contesto completamente diverso, quel codice è ancora lì, e parla.

Qual è stato il momento in cui hai capito che l’arte sarebbe stata la tua strada?

Non c’è stato un momento preciso in cui ho capito che l’arte fosse la mia strada, semplicemente perché è sempre stata lì. Non è una scelta, non è un mestiere che ho deciso di intraprendere: è qualcosa che mi accompagna da sempre, come il mio modo di camminare, di pensare, di guardare il mondo. L’arte per me è un respiro naturale, un gesto spontaneo, una lente con cui interpreto la realtà anche quando non sto creando nulla. Non ho mai avuto bisogno di capirlo davvero, perché l’ho sempre saputo in silenzio, come si sanno le cose più intime.

Cosa cerchi di comunicare quando scegli di mescolare elementi classici e contemporanei nei tuoi lavori?

Questo mio modo di mescolare elementi classici e contemporanei nasce sicuramente dai miei studi artistici. Ho avuto un’insegnante di storia dell’arte talmente appassionata che ogni volta che ci parlava di un artista lo faceva come se fosse un amico intimo, come se avesse vissuto la sua vita accanto a lui. Ogni nome che ci raccontava portava con sé qualcosa di magico, di rivoluzionario. Così ho imparato che per creare qualcosa di personale bisogna prima conoscere, osservare, assorbire. Si impara copiando, certo, ma per farlo davvero serve una base solida. Quindi, se mi chiedi cosa cerco di comunicare quando unisco passato e presente, ti direi che più che comunicare cerco di esplorare. Cerco di migliorarmi, guardando al passato con rispetto e al futuro con curiosità.

Il passaggio al digitale ha cambiato il tuo modo di percepire l’atto creativo? O è semplicemente un’estensione del tuo linguaggio pittorico?

Il mio rapporto con il digitale è stato a lungo contrastante. Per molto tempo non riuscivo ad accettarne il valore, lo guardavo con diffidenza, quasi come se tradisse l’idea più ‘vera’ della pittura. Poi, nel 2019, sono caduta in tentazione: ho comprato un iPad con il pennino e ho iniziato a dipingere… ma l’ho fatto come se avessi una tela davanti. So che ci sono ancora pregiudizi sull’arte digitale, ma per me è diventata una scoperta importante. Mi ha aiutata a migliorarmi anche con l’acrilico, mi ha aperto nuovi spazi espressivi. Oggi non la vedo più come una nemica, ma come un’estensione del mio linguaggio, un altro modo per entrare nel mio mondo e restituirlo a chi guarda.

Come scegli i temi sociali da rappresentare? Sono frutto di esperienze personali, osservazioni, o reazioni a ciò che accade nel mondo?

I temi dei miei quadri nascono spesso dal mio vissuto: sono quadri-manifesto, oppure il risultato di qualcosa che mi ha colpita e da cui poi costruisco una storia. A volte è una reazione, altre volte è pura attrazione visiva o emotiva. Amo dare un senso a ogni opera, ma non sempre quel senso deve essere profondo: può essere sarcastico, provocatorio, o semplicemente qualcosa che mi fa stare bene. Per me l’arte è anche questo: un modo per raccontarmi, per digerire quello che vedo e sento, e a volte anche per sorriderci sopra.

Cosa ti affascina maggiormente nel surrealismo, e come riesci a tradurlo nel tuo stile personale?

Del surrealismo mi affascina la libertà assoluta: quella di mescolare sogno e realtà senza dover dare spiegazioni, di usare simboli che parlano all’inconscio prima ancora che alla ragione. Mi piace il modo in cui il surrealismo riesce a dire verità profonde travestite da assurdità, come se l’assurdo fosse solo un altro modo di guardare in faccia la vita. Nel mio lavoro cerco di tradurlo lasciando che le immagini vengano fuori quasi da sole, senza forzarle. Seguo il flusso, accetto il caos, mi diverto a nascondere messaggi o a crearne dove magari non ce ne sono. Il surrealismo, per me, è come parlare una lingua che solo alcuni capiscono subito.

Hai mai sentito un conflitto tra la tua formazione accademica classica e la libertà espressiva del digitale e del surreale?

Durante l’Istituto d’Arte ho capito presto che le regole accademiche mi stavano un po’ strette, mi annoiavano. Non è stato un percorso fatto di rigide imposizioni tecniche, ma piuttosto di una scoperta continua soprattutto attraverso lo studio della storia dell’arte. Quella conoscenza mi ha aiutato a scegliere, a capire cosa mi appassiona davvero e a sviluppare il mio gusto. Il digitale e il surrealismo sono stati per me un naturale proseguimento di questa ricerca di libertà espressiva: non una rottura, ma un modo per superare le limitazioni.

Come reagisce il pubblico alle tue opere? Noti differenze tra chi osserva i tuoi lavori digitali e chi guarda le tue tele fisiche?

Sì, sinceramente noto ancora una grande differenza. Anche se le mie opere digitali diventano fisiche perché le stampo in edizioni limitate – massimo tre copie, ad esempio – c’è chi continua a dire: ‘Ah, ma è digitale, non è un quadro vero’. È come se il pubblico non riuscisse a riconoscere pienamente il lavoro, l’intenzione, il tempo e la sensibilità che ci sono dietro un’opera digitale. Non ho un pennello, ma ho un pennino, e ogni dettaglio nasce comunque da me, dalla mia testa, dal mio istinto. Credo che per molti il digitale sia ancora un mistero, qualcosa che suona meno ‘autentico’. A volte sembra che venga visto come un’arte di serie B… o anche C o D! Ma non mi lamento troppo: anche io, all’inizio, ero scettica. Poi mi sono ricreduta, e magari, con il tempo, lo faranno anche gli altri.

Lavori spesso con colori molto saturi e composizioni emotive: c’è una connessione tra il colore e il tipo di emozione o messaggio che vuoi trasmettere?

Più che una connessione diretta, tra me e il colore esiste un contrasto. La mia anima è spesso cupa, attraversata da pensieri intensi e profondi… ma ciò che mostro fuori – e anche nella mia arte – è l’opposto: colori saturi, brillanti, apparentemente leggeri. Questo contrasto si riflette nei miei lavori, dove temi emotivamente forti, a volte anche dolorosi, vengono nascosti dietro tinte vive e composizioni che attirano l’occhio prima di colpire il cuore. È un modo istintivo di raccontare qualcosa di complesso senza doverlo gridare. Una specie di inganno visivo, ma sincero.

Se potessi collaborare con uno degli artisti che ti ispirano — Dalí, Caravaggio, Lempicka — su un’opera, quale sceglieresti e perché?

Sceglierei senza dubbio Caravaggio. Era un artista dannato, impulsivo, ma con un talento fuori dal comune. I suoi quadri sembrano vivi, pieni di luce e ombra, carne e verità. Mi piacerebbe stargli accanto, guardarlo lavorare in silenzio, assorbire ogni gesto, ogni scelta. Avrei voglia di mangiare il suo lavoro con gli occhi, capire come riusciva a rendere così potenti le emozioni. Mi affascina la sua capacità di mescolare il sacro con il quotidiano, di raccontare l’umanità senza filtri. E anche se lui era un’anima turbolenta, credo che avremmo parlato lo stesso linguaggio.

C’è un’opera in particolare a cui sei più legata emotivamente? Se sì, cosa la rende così speciale?

Sì, c’è un’opera che mi ha sempre colpita profondamente: la Morte della Vergine di Caravaggio. Quello che la rende speciale per me non è solo la potenza pittorica, ma la storia dietro: per dipingere la Vergine, Caravaggio scelse come modella una prostituta trovata morta nel Tevere. Questa scelta – scandalosa per l’epoca – per me è un atto d’amore verso l’umanità vera. Significa dire che anche il dolore, la miseria, la carne vissuta, possono essere sacri. Mi ha insegnato che l’arte non deve per forza abbellire, ma può mostrare la verità, anche quando fa male. E che la bellezza può nascere da dove nessuno la vuole cercare.

Come immagini l’evoluzione del tuo lavoro nei prossimi anni, tra pittura tradizionale e arte digitale?

Io sono un’anima in continua evoluzione, come nella vita così anche nell’arte. Non voglio essere sempre la stessa, mi annoierei. Un quadro che mi rappresentava un anno fa – o anche solo qualche mese fa – rimane sempre un mio figlio, ma può non parlarmi più nello stesso modo. Per questo credo che il mio lavoro continuerà a cambiare: mescolerò ancora pittura e digitale, forse in modi nuovi che oggi nemmeno immagino. Cerco il cambiamento, lo studio, la sorpresa. Mi piace l’idea che ogni fase della mia vita lasci una traccia visiva diversa, come se l’arte fosse il mio modo di raccontarmi senza dovermi spiegare.

Descriviti in tre colori.

Verde petrolio: come la mia profondità. Nero: come la mia anima inquieta. Rosa: come la mia parte femminile.

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