LETTERE SOSPESE NEL TEMPO: A EDGAR

LETTERE SOSPESE NEL TEMPO: A EDGAR

Amato Edgar, vi scrivo da un tempo che non vi appartiene più, eppure vi appartiene ancora, perché la vostra ombra continua a scorrere tra le pieghe del presente come un sussurro che non vuole morire. È nella penombra che vi cerco, là dove il pensiero si fa nebbia e il cuore trema al suono delle vostre parole. Voi che avete fatto del dolore un linguaggio, della solitudine un altare, e dell’oscurità la più luminosa forma di bellezza, siete ancora qui, sospeso tra la notte e il sogno, tra la verità e la follia. Ogni volta che apro le pagine dei vostri racconti, mi sembra di sentire il battito affannoso del vostro cuore, un cuore che non smise mai di cercare la pace nell’abisso. La vostra scrittura, così precisa e delirante, è come una mappa dell’anima: conduce chi vi legge nei corridoi della mente, tra le paure e i desideri, fino a quel punto in cui la ragione si dissolve e l’immaginazione si fa carne. Nessuno, prima o dopo di voi, ha saputo parlare con tanta eleganza del terrore, con tanta delicatezza della morte. Voi non l’avete temuta, l’avete abbracciata come un’amante, le avete dato voce e forma, fino a farla danzare sulla carta. C’è in voi una malinconia che pare eterna, un desiderio di infinito che si confonde con la disperazione. Le vostre parole sembrano scritte con inchiostro e lacrime, con il sangue di un’anima che non trova riposo. Eppure, in questo tormento, c’è una bellezza struggente, una verità che pochi osano guardare. Avete insegnato al mondo che l’orrore può essere sublime, che la follia può contenere la più lucida forma di coscienza. Ogni vostro personaggio è uno specchio infranto, e in ognuno di quei frammenti si riflette un volto dell’umanità che ancora ci riguarda. Vi immagino, Edgar, solo nella vostra stanza, con la penna stretta tra le dita e lo sguardo perso nel vuoto. Forse fuori pioveva, forse la notte era così densa che pareva respirare. La bottiglia di assenzio accanto al lume, il fruscio dei pensieri che diventano versi, e quella sensazione di precipitare in se stessi, come se scrivere fosse un atto di salvezza e condanna insieme. La vostra mente era un labirinto di ombre e meraviglie, e voi ne eravate il Minotauro e l’eroe. Non vi giudico per la vostra fragilità, anzi, la celebro. È nella fragilità che avete trovato la forza di creare mondi che ancora oggi ci inquietano e ci affascinano. Avete trasformato la vostra inquietudine in poesia, la vostra angoscia in arte, la vostra caduta in leggenda. Chi vi legge non dimentica. Chi vi ascolta, tra le righe, sente ancora il respiro del vostro dolore, ma anche la grazia con cui lo avete reso eterno. Forse, se aveste vissuto in un altro tempo, avreste trovato più comprensione e meno tormento. Ma forse è proprio dal vostro dolore che nasce la vostra grandezza. Voi siete l’emblema dell’animo umano quando si spinge oltre il limite, quando osa guardare nell’abisso e restare in piedi. La vostra arte non consola: scuote, ferisce, risveglia. Ed è per questo che continua a vivere, a respirare tra le menti di chi, come voi, cerca la verità dietro la maschera dell’apparenza. Vi scrivo per dirvi che non siete mai davvero morto. Le vostre parole si aggirano ancora tra noi come spettri luminosi. Quando la notte cala e il silenzio si fa profondo, c’è sempre qualcuno che apre un vostro libro e sente un brivido scendere lungo la schiena. È in quel momento che tornate a vivere, Edgar, in quella paura dolce e in quella malinconia che ci accomuna. Vi immagino ora, forse finalmente in pace, mentre sorridete di quel sorriso stanco e ironico che solo chi ha conosciuto l’abisso può avere. E penso che, in fondo, l’immortalità che cercavate non vi è sfuggita: siete diventato il sogno stesso, la notte che non passa, la parola che non muore. Con profonda ammirazione e con una tenerezza che attraversa i secoli, un’anima errante che ancora vi legge e vi ascolta nel buio.

R.

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