Marco è un artista contemporaneo emergente, protagonista di una ricerca creativa in continua evoluzione. La sua produzione si caratterizza per una notevole versatilità, spaziando con naturalezza tra stampe, quadri, acquerelli, sculture e arte concettuale. Ogni opera rappresenta un’esplorazione del suo mondo interiore, un intreccio di emozioni, intuizioni e riflessioni che si traducono in forme e colori. La sua arte è un invito al dialogo, un percorso visivo che mette in connessione lo spettatore con una dimensione autentica, sensibile e profondamente personale.
Cos’è per te l’arte?
L’arte per me è sopravvivenza, ma anche origine. È la mia lingua madre. Sin da bambino, l’ho usata per capire il mondo e per abitare me stesso. È la forma più onesta e radicale che ho per dire che esisto, che provo, che resisto. È la mia stampella dell’anima, il rifugio dove vado a respirare quando il mondo diventa troppo pesante. Nei momenti di depressione, quando tutto dentro si sbriciola, è l’unico spazio in cui riesco a rimettere insieme i pezzi. L’arte non è un mestiere, è una necessità.
Cosa ti spinge a passare da una tecnica all’altra, come dall’acquerello alla scultura?
È una spinta naturale, quasi viscerale. Ogni emozione ha bisogno del suo corpo, della sua pelle. A volte serve la leggerezza liquida dell’acquerello, altre volte la concretezza tagliente della scultura. Cambiare tecnica per me è come cambiare tono di voce: non per scelta, ma per necessità. Ogni materiale mi costringe a guardare dentro di me con occhi nuovi, con mani nuove.
Qual è il filo conduttore emotivo o concettuale che unisce opere così diverse?
È il bisogno di verità. Di lasciare una traccia reale di ciò che vivo, anche quando non è bello da vedere. Tutto quello che creo è attraversato da una tensione interna: la ricerca di equilibrio tra caos e quiete, tra ferita e guarigione. Possono cambiare i linguaggi, le forme, i supporti… ma dentro c’è sempre quel filo teso tra dolore e desiderio di luce.
Come nasce l’idea di un’opera: da un’immagine, da un’emozione o da un pensiero?
Di solito nasce da un’emozione che non riesco a contenere. A volte è un’immagine che mi perseguita, altre un pensiero che si sedimenta lentamente. Ma l’atto creativo comincia davvero quando la mano si muove, quando il gesto precede la parola. È lì che l’opera prende forma, tra impulso e intuizione.
C’è un materiale che senti più “tuo”?
Sì. L’inchiostro nero su fondo bianco. È il mio territorio. Il nero è netto, definitivo. È dolore che prende forma, è pensiero inciso. Il bianco è il vuoto, lo spazio che accoglie, che ascolta. Insieme sono essenziali, radicali. Mi costringono a non mentire, a dire solo quello che conta davvero.
In che modo l’arte concettuale ti permette di esprimere qualcosa che altri linguaggi non riescono a comunicare?
Perché non ha bisogno di spiegarsi: suggerisce, evoca, mette in crisi. È il luogo del dubbio, non della certezza. Mi permette di affrontare temi profondi, anche scomodi, senza doverli incasellare razionalmente. È uno spazio di libertà mentale, dove anche il vuoto può diventare significato.
Qual è stato il momento in cui hai sentito di voler dedicare la tua vita all’arte?
Non c’è stato un momento solo. L’arte ha sempre fatto parte della mia vita, fin da bambino. Ma quando la depressione si è fatta più intensa, ho capito che o trovavo un modo per esprimere il dolore, o sarei sprofondato. L’arte è stata quel modo. Non è una scelta: è qualcosa che mi ha tenuto in vita, e che continuo a seguire come si segue una voce nel buio.
Come vivi il rapporto tra introspezione e comunicazione con il pubblico?
Lo vivo con un certo pudore, ma anche con gratitudine. Quando metto fuori ciò che è dentro, non so mai come sarà accolto. Eppure, ogni volta che qualcuno si ferma davanti a un mio lavoro e dice: “Mi ci ritrovo”, sento che l’arte ha fatto il suo lavoro. Non serve che capiscano tutto. Mi basta che sentano.
Hai degli artisti o ispirazioni che hanno influenzato il tuo percorso, anche fuori dall’arte visiva?
Assolutamente sì, le mie ispirazioni attraversano più mondi e generi. Musicalmente, spaziando da Dexter and the Moon Rocks a Max Fry, passando per Lil Peep, per poi scaraventarmi nei Red Hot Chili Peppers, che amo sin da bambino, fino ad arrivare ai potenti e disturbanti suoni dei Nine Inch Nails e all’intensità emotiva e sperimentale dei Radiohead. Artisticamente, il richiamo più forte viene dall’espressionismo tedesco, con figure come Ernst Ludwig Kirchner, e dalla crudezza emotiva di Francis Bacon, anche se la mia arte non si lascia mai imprigionare in una sola direzione o stile. Dal punto di vista concettuale, trovo una grande ispirazione in Anish Kapoor, che con le sue forme e i vuoti indaga l’invisibile e l’ignoto, aprendo porte che la materia da sola non riesce ad attraversare.
Come reagisci quando un’opera viene interpretata in modo molto diverso da quanto avevi immaginato?
All’inizio mi spiazza, lo ammetto. Ma poi capisco che è anche quello il senso. L’arte non è un messaggio chiuso in una bottiglia, è un contatto aperto. Se un’opera genera un’interpretazione diversa dalla mia, vuol dire che ha smosso qualcosa. E allora va bene così. È viva.
Stai esplorando nuove direzioni o progetti futuri che ti emozionano particolarmente?
Sì. Sto iniziando a lavorare con il legno intagliato, che sento come un materiale antico, resistente, con una sua voce già dentro. Mi piace l’idea di scavare, di togliere, per arrivare a un’essenza. E mi sto avvicinando anche al carboncino su tela — sporco, diretto, immediato. È un ritorno al segno puro, istintivo. Questi due percorsi mi stanno guidando verso un’espressione ancora più cruda, più fisica.
Descriviti in tre colori.
Nero, perché è il mio punto di partenza, il mio peso, la mia profondità. Bianco, come lo spazio necessario per respirare, per accogliere. Rosso ossido, il sangue antico che pulsa anche quando tutto sembra fermarsi.








