MARCO SAVIO

MARCO SAVIO

Marco, conosciuto come savART, è un artista torinese nato nel 1973 che unisce passione e un pizzico di irriverenza in un percorso sempre rivolto alla ricerca di nuove sfide e direzioni inesplorate. Dopo gli studi al Liceo Artistico, l’arte diventa compagna costante della sua vita, conducendolo attraverso linguaggi diversi che spaziano dalla fotografia al cinema, dalla pittura alla scultura, fino al lettering di design. Il suo debutto avviene con la realizzazione di cortometraggi premiati al Torino Film Festival e al Festival nazionale ultracorti nel 2005. Le sue opere, caratterizzate da un forte valore simbolico, invitano l’osservatore a riflettere su temi legati allo sviluppo della sensibilità umana. Nel 2017 espone a Paratissima con un allestimento fotografico e vi torna nel 2023 insieme a Roberta Di Falco, alias La ragazza magica. Più recentemente ha preso parte a diverse esposizioni collettive all’interno della rete ArtàPorter. La sua produzione è visibile sui canali di Paratissima Gallery, ArtàPorter e sul sito personale www.savart.it. Oltre all’attività artistica, ha scritto saggi dedicati alla fotografia e al rapporto tra arte e scuola, e si prepara a pubblicare il suo primo racconto illustrato.

Cos’è per te l’arte?

Per me l’arte è “Pura Vida”, è la bellezza nella semplicità di ogni cosa è felicità, gratitudine per la vita, è benessere fisico e spirituale. Mi piace analizzare la società del nostro tempo con le sue contraddizioni e i suoi eccessi. Mi interessano i contrasti a partire da quello tra natura e tecnologia o quello tra reale e virtuale.

Quale significato attribuisci al nome savART e come rappresenta la tua identità artistica?

savART è un concentrato di passione unito ad un pizzico di irriverenza. Sav come Savio ma anche come “salvare” l’ARTE che affronta sempre nuove sfide per trovare percorsi inesplorati e spostare le nostre anime.

In che modo la fotografia e il cinema hanno influenzato il tuo approccio alla pittura, alla scultura e al design?

L’amore per il cinema è iniziato ai tempi del liceo quando con gli amici passavamo il tempo a realizzare cortometraggi comico-demenziali. Poi la cosa è diventata più seria e abbiamo partecipato e vinto anche qualche festival. La fotografia è l’origine alla base del cinema e anche dell’artista moderno. Chiunque voglia lavorare nel mondo della comunicazione deve conoscere le basi della fotografia. Ti permette di osservare il mondo oltre il vedere e di avere una tua personale visione. Questo non può che influenzare ogni attività che si vuole intraprendere. Ogni scelta che sia in pittura che in scultura o design è una scelta compositiva e quindi di tipo fotografico.

Quando realizzi un’opera, quale ruolo gioca per te la simbologia e come pensi che arrivi allo spettatore?

La simbologia è metafora che permette alle opere di diventare poesia. Riempie di senso ciò che vediamo e dona valore oltre alla mera valenza estetica. Certo, per essere compresa ha bisogno di una chiave che permetta al fruitore di comprendere. Ecco perché nelle mie opere utilizzo spesso il lettering. Mi permette di creare contrasti di senso e di guidare l’osservatore alla riflessione. Un po’ come dei moderni Haiku, le mie opere uniscono immagine e testo per creare poesia e lasciare un segno nel viaggio della vita di chi le osserva.

Cosa ti ha spinto a esporre a Paratissima e cosa hai portato via da quell’esperienza?

Nel 2017 era un esperimento che utilizzava le fotografie dell’immenso archivio di mio padre per aprire riflessioni sulla memoria custodita negli archivi famigliari. Li ho venduto la mia prima opera. Una fotografia di mio padre scattata con una pellicola agli infrarossi negli anni ’70 e rielaborata da me al computer. Ora ho appoggiato il progetto di artàporter che sta portando l’arte fuori dagli spazi convenzionali per conquistare le pareti e gli spazi dei locali comuni. L’arte diventa così parte delle vite di tutti.

Il lavoro con Roberta Di Falco ha cambiato o arricchito la tua ricerca? In che modo?

Lei è la mia musa e la mia guida tanto che l’ho chiamata fin dall’inizio la mia “stella cometa”. Grazie a lei ho creduto nuovamente in quello che faccio e ho ritrovato lo spirito, l’intenzione di fare arte.

Come vivi il passaggio tra linguaggi diversi senza perdere coerenza artistica?

L’arte è di per sé concettuale, l’idea è il motore, tutto il resto è solo un medium tra l’artista e il fruitore finale. Ogni idea vive di vita propria e trova la sua giusta collocazione nel supporto più adatto ad esprimersi. I linguaggi sono solo delle convenzioni con cui l’artista deve giocare.

Quali riflessioni speri che il pubblico porti con sé dopo aver osservato i tuoi lavori?

Dipende dall’opera e dall’argomento trattato. In generale i temi che tratto sono legati alla riscoperta del sé e allo sviluppo della sensibilità umana. Parlo di pace e di rapporto con la natura e con la tecnologia. Andiamo incontro a tempi di cambiamenti sempre più rapidi e abbiamo bisogno di una nuova capacità critica. Sarà sempre più difficile distinguere il virtuale dal reale e l’unica salvezza sarà l’amore per la conoscenza ovvero la curiosità, la voglia di approfondire, in poche parole, la filosofia.

Il tuo primo racconto illustrato rappresenta una nuova fase della tua ricerca? Cosa ti ha spinto a intraprendere questo progetto?

In realtà è un progetto che avevo lasciato nel cassetto dal 2018. All’inizio di questa estate l’algoritmo di YouTube mi ha proposto un video in cui si parlava del progetto Schmidt Ocean Institute per cui è possibile osservare in diretta i fondali degli oceani. Ho pensato, cavolo ma io avevo già scritto un racconto che parla di oceani e di creature degli abissi. A quel punto ho tirato fuori il racconto e l’ho fatto leggere a Roberta, la mia compagna. Lei è rimasta sorpresa ed entusiasta e mi ha incoraggiato a riprenderlo e a crederci. Tra poco vedrà la luce e sarà il primo di una serie che racconterà un mistero del futuro ma anche del passato. Unisce fantascienza e archeologia in un viaggio denso di avventura. In poche parole è una storia vera…che deve ancora accadere.

Descriviti in tre colori.

Sicuramente il verde/giallo acido, quello che si trova in alcuni quadri di Van Gogh, poi il turchese, lo trovo meraviglioso nel suo essere sospeso tra cielo e acqua e non posso dimenticare il blu Klein. Però, devo dire, che ogni colore esiste solo nel suo rapporto con gli altri. L’idea che abbiamo di un colore quando lo nominiamo è limitata e astratta.

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