Maxi è un cantautore, performer e direttore artistico italo-argentino attivo tra l’Italia e l’Argentina, con base a Lecce e Buenos Aires. La sua musica, originale e fortemente evocativa, unisce sonorità del Sud America con ritmi tipici del Sud Italia, accompagnati da testi autobiografici che raccontano il viaggio, le radici e l’identità. Come performer, integra canto, narrazione, danza e proiezioni visive in spettacoli dal vivo ad alto impatto emotivo e sensoriale. La sua presenza scenica è intensa e coinvolgente, capace di trasformare ogni esibizione in un’esperienza immersiva. È autore e protagonista di “El Vestido de Dora”, docufilm e spettacolo vincitore del Premio Flaiano, che racconta la storia migrante della sua famiglia italiana in Argentina attraverso canzoni originali, immagini d’archivio e poesia visiva. Ha presentato le sue opere in festival, musei e teatri in Italia e Argentina. Come direttore artistico ha curato progetti internazionali che uniscono arte visivo, fesitivlas e turismo delle radici in Stati Uniti, Canada, Australia e Brasile. In particolare, con la Regione Puglia ha guidato una missione culturale a Buenos Aires che si è conclusa con la firma di un accordo di collaborazione tra il Teatro Pubblico Pugliese e il Ministero della Cultura della Città di Buenos Aires, facilitando scambi artistici tra la Puglia e l’Argentina. Dal Salento, dove risiede, sviluppa performance e progetti culturali con artisti locali che creano ponti tra le comunità italiane nel mondo, promuovendo un’arte viva, identitaria e con forte impatto sociale.
Come definiresti l’identità sonora che nasce dall’incontro tra Sud America e Sud Italia nella tua musica?
La mia identità sonora nasce da una fusione profonda tra ciò che ho ereditato e ciò che ho scelto di cercare. Da un lato, la musica sudamericana – il folklore argentino, la cumbia, il rock nazionale – è segnata da una malinconia che porta già dentro un’eco europea. Dall’altro, c’è la musica delle mie radici italiane: i canti a cappella dei miei nonni, il tamburello, la fisarmonica – che ha segnato la mia infanzia – e le melodie danzanti delle feste in famiglia. Quando ho sentito il bisogno di approfondire la musica delle mie origini italiane, è nato in parallelo anche il desiderio di comprendere più a fondo il folklore argentino. Una ricerca ha alimentato l’altra. E lungo questo cammino ho capito che, per molti come me, questa musica non è solo espressione artistica: è un processo di guarigione. È una forma di ritorno a casa. Anche solo cantando.
In che modo il tuo essere italo-argentino influenza il modo in cui racconti il concetto di “radici”?
L’Argentina è, a suo modo, uno dei paesi più italiani fuori dall’Italia. La cultura argentina è intrisa di italianità: nel cibo, nel linguaggio, nei gesti, nel modo di costruire relazioni. Ma è come se lì le tradizioni italiane fossero passate attraverso un filtro di leggerezza. Hanno mantenuto la memoria, ma l’hanno anche trasformata. Crescendo tra quelle due anime, ho imparato che le radici non sono solo qualcosa da conservare, ma anche da reinterpretare. In Argentina ho visto con i miei occhi cosa significa alleggerire certe rigidità, vivere la tradizione in modo più fluido, più vitale. E questo si riflette anche nel mio modo di raccontarle: con rispetto, sì, ma anche con ironia, con libertà, con voglia di farle danzare.
Che significato ha per te il “viaggio”, come artista ma anche come erede di una storia migrante?
Quando emigrarono i miei antenati, la migrazione fu un trauma. Fece male. Fu un distacco doloroso, una scelta obbligata dalla necessità. Non avevano mezzi, né certezze, e lasciarono tutto alle spalle per sopravvivere. Nel mio caso, invece, il viaggio è qualcosa di profondamente diverso. È una scelta consapevole, un atto di amore verso quelle radici. Tornare in Italia, per me, significa chiudere un cerchio: io torno là dove loro furono costretti ad andarsene. E sento che questa terra, che allora non poteva offrire loro un futuro, oggi a me lo sta offrendo. Come artista, la mia missione è raccontare questa esperienza: sono il frutto di una storia che ha attraversato l’oceano, e ora torno per condividerla. Per dire: guardate cosa è successo, guardate cosa può nascere da un dolore trasformato.
“El Vestido de Dora” fonde archivio e memoria personale: quanto è stato difficile trasformare un racconto familiare in arte pubblica?
El “Vestido di Dora” è nato in un momento di pandemia, quando, anche per necessità, ho sentito il bisogno di andare a cercare quell’archivio della memoria familiare. L’ho studiato, l’ho trasformato, l’ho riguardato con amore. Dentro c’è un archivio filmico con oltre 60 anni di storia.
All’inizio ho avuto dei dubbi. Esporre tutto questo al pubblico non era facile: era la storia intima della mia famiglia. Ma poi ho capito che non era solo la nostra storia: era quella di tante famiglie che hanno vissuto la stessa esperienza migratoria. Così, questo progetto è diventato un atto di nobiltà e di restituzione – da parte mia, della mia famiglia e di tutte le persone che mi hanno accompagnato. Abbiamo scelto di dire: questo materiale appartiene a tutti noi, a questa grande comunità italiana all’estero.
I tuoi spettacoli uniscono diversi linguaggi: come costruisci l’equilibrio tra musica, narrazione e immagine?
Sono una persona molto attiva e visiva: quando canto, ho bisogno di dare corpo e immagine a ciò che sto raccontando. La musica è la voce della mia energia, ma sento anche il bisogno di spiegare, di contestualizzare, di usare la parola — non solo quella cantata, ma anche quella narrata. Mi piace raccontare cosa c’è dietro una canzone, cosa mi ha mosso, senza togliere libertà all’interpretazione del pubblico. Mi interessa creare un’esperienza dinamica, dove musica, parole e immagini si intrecciano per tenere vivo l’ascolto. Le immagini fanno viaggiare nel tempo, le parole danno corpo al significato, la musica apre l’anima. Il mio obiettivo è sempre il messaggio: che il pubblico viaggi con me, senza distrarsi, restando dentro quel racconto fino all’ultimo secondo. Voglio che si sentano parte di qualcosa che accade qui e ora.
C’è una componente rituale o terapeutica nei tuoi live? Quale reazione del pubblico ti emoziona di più?
Sì, assolutamente. Nei miei live c’è una componente rituale e terapeutica, che nasce dalla passione con cui io — e chi mi accompagna — viviamo ogni concerto. I musicisti non sono semplici turnisti: sono parte di un racconto condiviso, partecipano con consapevolezza a ciò che stiamo portando in scena.
Accanto a me ci sono anche ballerine e ballerini, che danno corpo alla storia. E io stesso, con il tempo, ho scelto di mettere il mio corpo al servizio dell’arte. All’inizio mi sembrava qualcosa di lontano da me, ma oggi sento che il mio spettacolo me lo chiede: il movimento, la danza, completano il messaggio. Il mio è un arte quotidiana, che parla della vita reale. Cerco sempre uno scambio diretto col pubblico, voglio che le persone si sentano rappresentate in ciò che racconto. E accade spesso: la gente si emoziona, ride, piange, mi ringrazia. Ho vissuto momenti in cui si passava dalle lacrime alla gioia in un attimo. È lì che sento che si è aperto uno spazio vero, che qualcosa di autentico è accaduto tra di noi.
Come nasce un progetto culturale internazionale per te? Parti dall’idea, dalla comunità o dal territorio?
Per me un progetto culturale internazionale non nasce da un’idea astratta, ma da una necessità concreta di una comunità. Nel mio caso, tutto è partito dal desiderio di dare voce alle comunità italiane nel mondo: c’era chi aveva bisogno di raccontarsi “dall’altra parte” dell’oceano, e c’era chi — qui in Italia — aveva bisogno di capire cosa era successo a chi era partito. Oggi il mio percorso si sta aprendo anche ad altre cause, perché sento la responsabilità e la fortuna di essere ponte tra due terre. Questo mi permette di arricchire entrambe, portando esperienze, linguaggi ed emozioni da un lato all’altro. Nel mio ruolo di direttore artistico cerco anche di fare una sorta di cura umana e creativa: scelgo con attenzione chi coinvolgere — registi, musicisti, danzatori, attori — perché ogni voce deve nascere da un’urgenza reale. E poi, spesso, quando si lavora a livello internazionale, ci si chiede: “Cosa troverò dall’altra parte?” Sembra tutto lontano, diverso. Ma poi, quando arrivi e condividi la tua arte, scopri che le emozioni sono le stesse ovunque. Come si dice in Italia: tutto il mondo è paese.
Qual è stata la sfida più grande nel creare ponti tra la Puglia e l’Argentina?
A volte, la sfida più grande è far capire agli stessi artisti pugliesi che questi ponti sono possibili, reali, concreti. Che non si tratta di sogni lontani, ma di opportunità vere. Spesso è una questione di idiosincrasia: non tutti sono pronti a vedere oltre il proprio orizzonte. Ma quando il progetto si concretizza, la soddisfazione è enorme — per me e per chi collabora, che siano artisti o istituzioni.
Per me è fondamentale che ci sia uno scambio reale, che gli artisti pugliesi vadano in Argentina e che quelli argentini vengano in Puglia. E questo sta accadendo, non solo nell’arte, ma anche in altri settori. La Puglia ha saputo valorizzare il proprio territorio e farsi conoscere nel mondo. Questo rende tutto più semplice: quando un’identità si racconta con forza e autenticità, la necessità di incontrarsi nasce da sola.
Dici di promuovere un’arte “viva e identitaria”: che ruolo pensi abbia oggi l’artista nei processi sociali e culturali delle comunità?
Oggi tutto è veloce, visivo, istantaneo. Le cose passano in un attimo e si dimenticano subito. In questo contesto, io credo che l’artista abbia il compito di tenerci connessi, di riportarci al centro, di farci sentire. Non solo intrattenere, ma anche farci guardare negli occhi, creare spazi dove si possa condividere qualcosa di vero. Viviamo spesso ognuno per conto suo, e l’arte può essere quel momento in cui ci si ferma e si vive qualcosa insieme. Per me è importante che le opere abbiano peso, che restino, che lascino qualcosa, e non siano solo un contenuto che si consuma e si scorre. L’artista oggi, secondo me, deve aiutarci a non perderci, e a riconoscerci dentro un’esperienza comune.
Quali temi senti urgenti da portare in scena nei prossimi anni?
Negli ultimi anni ho lavorato molto sul tema delle radici, della memoria familiare, del passato. Oggi sento che è arrivato il momento di piantare la mia radice, di raccontare qualcosa che parte da me, dal presente. Il tema che mi gira attorno — che mi pulsa dentro — è l’amore. L’amore nelle relazioni umane, l’amore verso sé stessi, e anche l’amore di coppia, quell’incontro magico con l’altro, che però può nascere solo dopo un processo profondo di guarigione interiore. Abbiamo idealizzato tanto l’amore romantico, ma spesso senza fermarci a viverlo davvero. Io oggi sento il bisogno di esplorarlo in modo più maturo, più consapevole. Questo si riflette nei progetti che sto preparando: una videoinstallazione immersiva sul tema delle costellazioni familiari e una fiction cinematografica che racconta questa nuova fase — dove le radici restano, ma fanno parte dello sfondo. E come sempre, tutto questo avverrà sul ponte tra l’Italia e l’Argentina, che è il mio luogo d’origine e di creazione.





