SIMONE COSAC NAIFY

SIMONE COSAC NAIFY

Simone, originaria di Rio de Janeiro e oggi residente a Los Angeles, è un’artista multimediale che nel corso dei decenni ha esplorato le arti grafiche, decorative e relazionali, approdando a una ricerca sempre più centrata sulle dinamiche umane. I suoi lavori affrontano temi universali come la violenza, il dolore, la maternità e la libertà, concetti che alimentano la sua immaginazione e prendono forma nelle sue opere più recenti. Dopo la laurea in Giurisprudenza negli anni Ottanta, Simone si avvicina al mondo dell’arte negli anni Novanta studiando Design e intraprendendo un percorso graduale che la condurrà alla sua attuale ricerca. Nei primi anni Duemila approfondisce l’arte terapia, esperienza che diventa per lei fondamentale e che contribuisce a definire le domande e le inquietudini sul mondo che oggi emergono nel suo linguaggio artistico. Ha preso parte a numerose esposizioni internazionali, tra cui Venezia (2020 e 2021), Bologna (2020), Milano (2020), Londra (2022), São Paulo (2024) e Rio de Janeiro (2025), consolidando una presenza artistica che unisce sensibilità personale e visione universale.

Che cos’è per lei l’arte?

Per me l’arte ha senso solo se mira a un cambiamento sociale. È esprimere lo stupore di fronte al comportamento folle della nostra società. L’arte non può più essere soltanto un oggetto statico ed estetico, deve avere uno scopo di sensibilizzazione, deve liberare il grido dell’osservatore e dell’artista.

Qual è stato il momento decisivo che l’ha portata ad abbandonare il diritto per intraprendere una carriera artistica?

Non ho mai abbandonato la carriera artistica perché anche nel diritto con la mia attività di penalista ho fatto pieno uso della creatività. L’arte è sempre stata presente nella mia vita: ho iniziato a disegnare da quando ero bambina; tuttavia è stato nel 2016, quando ho chiuso la mia azienda di profumi, che ho deciso di dedicarmi completamente alle arti plastiche.

In che modo l’esperienza con l’arteterapia ha trasformato la tua visione e la tua pratica artistica?

Ho utilizzato l’arteterapia negli ospedali con i bambini malati. A Firenze ho fatto volontariato per 10 anni all’ospedale Meyer dove ho lavorato con loro anche durante il periodo della guerra in Iraq, provocata dal presidente Bush. Ho visto bambini arrivare al reparto di neurologia vittime dell’orrore dei bombardamenti.   L’arte è cura in tutto il suo contenuto e aiuta nel processo di recupero di coloro che scambiano la sofferenza delle loro malattie e la reclusione nella stanza d’ospedale con il desiderio visivo di esprimere il loro dolore. Questa esperienza mi ha fatto capire il potere dell’espressione, sia essa visiva, scritta, sonora, ecc.

Tra i temi che affronti, come la violenza, il dolore, la maternità e la libertà, ce n’è qualcuno che ritieni più urgente comunicare oggi?

Oggi viviamo in un mondo di bugie. La tecnologia è stata utile in molti ambiti, ma ha anche fornito uno strumento per manipolare la verità. Siamo manipolati dai nostri governanti ogni giorno. I media sono fonte di disinformazione. Un esempio lampante è il genocidio dei palestinesi a cui stiamo assistendo in diretta. Non c’è dubbio che, sia nel contesto storico che in quello che vediamo ogni giorno, gli israeliani, finanziati dagli americani e sostenuti dalla maggior parte delle nazioni ricche, siano gli autori di questo genocidio. E cosa dicono i media? Quante falsità sono state deliberatamente dette per dividere l’opinione pubblica? Distorsioni e ancora distorsioni. Una confusione terminologica che fa sì che chiunque sia a favore dell’integrità umana diventi antisemita (senza sapere che molti degli ebrei protestano da decenni contro questa invasione illegittima delle terre palestinesi e sono consapevoli che questi crimini contro i civili non sono iniziati due anni fa, ma vedono progressivamente estinguersi una razza in modo immorale).

Come riesci a tradurre emozioni così universali e profonde in un linguaggio visivo accessibile a tutti?

Il linguaggio non deve essere sempre visivo: a volte è principalmente visivo, ma va oltre questo livello e porta a un contributo universale. Un esempio è quello dell’artista Olafur Elliason che, invitando gli osservatori a comprendere il pericolo dei cambiamenti climatici attraverso le sue opere visive, ha finito per realizzare un bellissimo progetto chiamato “the Little Sun”, fornendo energia alle comunità africane che non avevano  accesso ad alcuna forma di elettricità.

Che differenza hai notato nell’esporre le tue opere in contesti così diversi come Venezia, Londra, San Paolo e Rio de Janeiro?

Ho vissuto in Italia per 15 anni e lavorato per 19, quindi quando torno in terra fiorentina mi sento a casa. L’Italia è diventata parte della mia storia personale, tanto che i miei figli, tutti nati negli Stati Uniti ma cresciuti in terra italiana, quando viene loro chiesto da dove vengono, rispondono che sono per metà brasiliani e per metà italiani. Sono stata invitata a realizzare la mia prima mostra personale a San Paolo e il processo di costruzione di una mostra nella terra madre è stato molto speciale. Sono rimasta molto commossa dall’accoglienza che ho ricevuto in Brasile. In questo momento ho un lavoro al Centro Culturale dei Correios a Rio de Janeiro. Penso che il mio destino sarà come quello degli elefanti: tornerò “alla casa madre” per trascorrere la mia vecchiaia.

C’è qualche opera o serie a cui sei particolarmente legata e che consideri un punto di svolta nella tua carriera?

All’inizio del 2016 ho dipinto molti quadri con colori acrilici; ho usato molte catene, filo spinato e corde. Volevo esprimere i frammenti, la sensazione di  confinamento di una persona che cerca sempre risposte in un mondo che fa tanto rumore e rimane silenzioso. Un giorno, stimolata da mio marito Michael Naify, ho iniziato a usare gli acquerelli. Ho scoperto che questo tipo di tecnica mi permette di esprimere gli stessi dolori, ma in modo più libero. Oggi vedo che gli acquerelli mi hanno liberata  dalle corde  e posso esprimere la prigionia  lasciandomi guidare dall’acqua, dal colore e dal pennello. Le serie che ho realizzato per il Brasile, “Mater Crucis” e “Mater Dolorosa”, hanno rappresentato una svolta nella mia traiettoria personale.

Come vive la dimensione relazionale dell’arte e in che modo il dialogo con il pubblico influenza il suo lavoro?

Il mio lavoro è quasi un diario personale; è un grido per impedire che la mia sanità mentale venga sacrificata dal mondo in cui viviamo. So che ci sono molte persone che hanno vissuto gli stessi problemi personali che ho vissuto io e quindi si identificano con quello che faccio perché abbiamo un linguaggio comune. Il dialogo con il pubblico è molto importante, ma l’artista non può produrre il proprio lavoro pensando a questo. A San Paolo, quando ho esposto una serie di acquerelli di madri palestinesi che portavano i loro figli morti avvolti in lenzuola (Mater Crucis), non ho menzionato l’origine etnica delle immagini, né ho parlato di quanto questa guerra o queste guerre mi indignino, tuttavia una signora è venuta e mi ha comprato due quadri, proprio all’inizio della mostra. Sono rimasta incuriosita dal suo atteggiamento. I miei quadri parlavano di morte, di perdite, di tristezza. Perché quella signora li aveva acquistati? Decisi di chiederglielo, anche se sapevo che un artista dovrebbe essere felice della vendita delle proprie opere e non tormentato da esse, e fu allora che mi disse che aveva perso un figlio assassinato. Mi sono sentita soffocare dal suo racconto; con i miei quadri avevo toccato una ferita profonda di quella signora; è stato un sentimento di colpa, di tristezza e di profonda depressione. Lei mi ha osservato e ha percepito ciò che stavo provando e con voce serena mi ha detto: “Questo dolore non è più così forte come prima; ci si rassegna alle perdite. In questo momento tu stai provando più dolore di me”.

Quali direzioni di ricerca senti di voler esplorare nei prossimi anni?

Voglio uscire dagli schermi o dai pezzi di carta e cercare di unirmi a persone che la pensano come me: dobbiamo abbandonare la nostra comodità e cercare di migliorare il futuro dei nostri figli e nipoti. Quello che vedo nella nostra società mi spaventa. Stiamo vivendo in un mondo completamente amorale. Stiamo perdendo la compassione e diventando persone robotiche e insensibili. Il progresso tecnologico ci sta confinando in un mondo irreale, individualista e perverso. Dobbiamo denunciare ciò che è ovvio.

Descriviti in tre colori.

Sono tutti i colori: bianco!

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