Ho camminato lentamente tra le pareti vive del Labirinto della Masone, come chi sa di entrare in un luogo che non si attraversa soltanto con il corpo. L’aria era densa di attesa, come se ogni svolta potesse spalancare un’altra coscienza, un altro mondo. E poi, l’incontro: “L’Uovo, lo Scheletro, l’Arcobaleno”. Non una mostra, ma una visione stratificata, un racconto sospeso tra nascita e dissoluzione, tra il grottesco e il sublime. Luigi Serafini non illustra, non spiega, non accompagna. Disorienta. Scardina. Ma lo fa con la leggerezza affettuosa di chi ti prende per mano e ti porta in un altrove che hai sempre saputo esistere, ma non avevi mai osato guardare in faccia. C’è l’Uovo, simbolo primordiale, promessa e mistero. Non è solo un inizio, è la dichiarazione che ogni cosa è ancora possibile, che la forma non ha confini e la materia è fluida, liquida, fertile. Serafini lo rende organismo narrativo, contenitore di assurdità e potenziale poetico, come se dicesse che tutto ciò che verrà è già stato, ma in un ordine che solo l’immaginazione sa disegnare. Poi lo Scheletro: la struttura nascosta, l’eco della morte ma anche il gesto che regge il mondo. Non fa paura, non ammonisce: è presente. È ciò che rimane quando tutto si dissolve, e proprio per questo, è ciò che libera. Serafini lo accosta a immagini che sanno di gioco e di sogno, e così quel che sembrava macabro diventa tenero, ironico, quasi infantile. Come se ci dicesse che non dobbiamo avere paura del nostro finire, perché dentro ogni fine c’è una nuova grammatica da inventare. E infine l’Arcobaleno. Non come effetto ottico, ma come passaggio, come trasfigurazione. È l’approdo, ma anche l’illusione che ci permette di continuare a cercare. I colori in Serafini non sono decorazione, sono stati dell’anima. Non raccontano il reale, ma lo reinventano, lo sublimano, lo liberano dal peso della comprensione. Ogni tavola del Codex Seraphinianus, ogni scultura, ogni installazione è un frammento di un diario scritto nella lingua di chi sogna con tutti i sensi. Non c’è didascalia che possa restituire davvero quello che succede in queste stanze. Il tempo si piega, la logica si ammorbidisce, la mente si allenta. L’universo di Serafini non ha bisogno di essere tradotto. Va respirato. Va vissuto con quello sguardo che avevamo da bambini, quando un sasso poteva essere una creatura e un arcobaleno un messaggio segreto. Il visibile è solo una delle possibilità del reale: ecco la profezia, lo statement che resta inciso dentro. Non ci invita a capire. Ci invita a credere che il senso, forse, è proprio nel non capire del tutto. A mostra conclusa, ho avuto la sensazione che qualcosa mi fosse stato restituito. Non un’idea, non una risposta, ma uno spazio vuoto — preziosissimo — dove l’assurdo può essere fertile e il non detto può contenere più verità di qualsiasi parola. Luigi Serafini non ci racconta il mondo. Ci ricorda che possiamo ancora inventarlo.
di Charlotte Madeleine Castelli



