Carmine è uno chef napoletano che ha saputo trasformare la cucina in un linguaggio artistico e interculturale, dando vita al Mediterranean Fusion®, un concetto che fonde le tradizioni autentiche del Sud Italia con influenze gastronomiche provenienti da Asia, Medio Oriente, Nord Africa ed Europa. Con uno stile personale, identitario e rivoluzionario, ha creato una nuova forma di espressione culinaria in cui ogni piatto diventa un ponte tra culture, tempi e visioni. La sua carriera è segnata da un percorso nelle più prestigiose cucine stellate d’Europa e da numerose collaborazioni internazionali. Il suo talento e la sua capacità di innovazione lo hanno portato a ricevere il Leone d’Oro per l’Arte Culinaria e alla Carriera, un riconoscimento prestigioso condiviso con giganti della gastronomia mondiale. Nella sua cucina, l’inclusione e la ricerca si incontrano con creatività, disciplina e passione, dando vita a esperienze sensoriali che evocano bellezza, memoria ed emozione. Chef Mottola non si limita a seguire le tendenze: le anticipa. Con il Mediterranean Fusion®, porta in tavola un mondo in cui ogni cultura trova spazio, valorizzazione e armonia. Ogni piatto racconta un viaggio, un’idea, una storia, trasformando il momento del pasto in un’esperienza unica e significativa.
Cos’è per te l’arte?
L’arte è la voce dell’anima che prende forma. È un linguaggio che non ha bisogno di parole, ma che parla direttamente al cuore. Per me, la cucina è la forma più intima e sensoriale di arte: un’idea che si trasforma in sapore, colore, profumo, emozione. È un atto d’amore, di memoria, di visione.
Cosa ti ha ispirato a creare il Mediterranean Fusion®️ e quando hai capito che sarebbe diventato il tuo linguaggio distintivo?
Mediterranean Fusion®️ è nato da un’urgenza: raccontare il Mediterraneo non come confine, ma come crocevia. La mia ispirazione è venuta dai viaggi, dagli incontri, dalle contaminazioni vissute e assaggiate. Ho capito che questo era il mio linguaggio quando le persone, mangiando, riconoscevano emozioni familiari in sapori nuovi. Quando tradizione e sorpresa si abbracciavano in un solo boccone.
Qual è il processo che segui per costruire un piatto che racconti una storia e un incontro tra culture?
Parto sempre da una domanda: “Cosa voglio far provare?” Poi studio, osservo, ascolto. Ricerco ingredienti autentici, tecniche antiche e contemporanee. Creo connessioni. Ogni piatto deve avere un cuore narrativo e una struttura solida. È come scrivere una poesia: ci vuole ispirazione, ma anche ritmo, tecnica e rispetto per chi la leggerà… o in questo caso, assaggerà.
In che modo il tuo legame con Napoli e il Mediterraneo continua a influenzare la tua cucina oggi?
Napoli è il mio punto di partenza, il mio porto sicuro. Il Mediterraneo è la mia bussola. La mia cucina è sempre impregnata di quella teatralità napoletana, di quella generosità nel dare tutto nel piatto. Ma anche di quella capacità di accogliere il diverso, perché il Mediterraneo è un mare che unisce, non separa.
Cosa significa per te aver ricevuto il Leone d’Oro per l’Arte Culinaria? Come ha cambiato il tuo modo di vivere la professione?
Riceverlo è stato un momento di profonda gratitudine. Non lo considero un traguardo, ma una responsabilità. Mi ha spinto a essere ancora più coerente con la mia visione, a cercare verità nei miei piatti. È la conferma che l’identità, se perseguita con autenticità, può diventare universale.
Qual è stata la sfida più grande nel far accettare una cucina così personale e interculturale nel panorama gastronomico tradizionale?
La sfida più grande è stata superare i pregiudizi. Quando mescoli culture, c’è chi pensa tu stia “snaturando” qualcosa. Ma io non forzo mai: creo ponti, non forzature. Ho imparato a spiegare, a far assaggiare, a far capire. E col tempo, anche i più scettici hanno cominciato a vedere che c’è rispetto dietro ogni fusione.
C’è un ingrediente che rappresenta meglio di altri la tua visione del Mediterranean Fusion®️?
Il limone fermentato. È mediterraneo, intenso, ma anche trasversale. Sta bene con l’Asia, con il Medio Oriente, con l’Africa. È un ingrediente che ha viaggiato, si è trasformato, ma non ha perso la sua anima. Come me.
Come bilanci creatività e disciplina in cucina, due elementi che sembrano opposti ma nel tuo lavoro convivono?
Creatività senza disciplina è caos. Disciplina senza creatività è routine. In cucina, devono ballare insieme. Ogni gesto, ogni taglio, ogni temperatura ha una regola. Ma dentro quelle regole si può danzare. L’arte sta nel trovare armonia. E io cerco sempre quella nota perfetta tra istinto e rigore.
Cosa provi quando un tuo piatto riesce a emozionare chi lo assaggia?
È il momento più puro e potente. Vedere un sorriso, uno sguardo che si illumina, un ricordo che riaffiora: è lì che capisco che ho comunicato davvero. In quel secondo, non esistono lingue, culture, differenze. Solo verità condivisa.
Quali culture ti affascinano oggi e che influenze stai esplorando nei tuoi ultimi piatti?
In questo momento sono molto affascinato dalla cultura etiope e dalle fermentazioni giapponesi. Sto esplorando come l’umami ancestrale dell’Africa possa incontrare la precisione zen del Giappone, sempre passando dal cuore mediterraneo. Una triangolazione che mi emoziona e che sto studiando con profondo rispetto.
Dove immagini che stia andando il futuro della cucina mediterranea, e quale ruolo pensi di avere in questo cammino?
Credo che la cucina mediterranea sia destinata a diventare ancora più inclusiva, sostenibile, e narrativamente forte. Il mio ruolo? Continuare a custodirla e reinventarla, come un artigiano del gusto. Portare la sua voce nei grandi palcoscenici del mondo, ma con le mani ancora impastate di verità.
Descriviti in tre piatti.
Crudo di gambero rosso, latte di cocco e bergamotto – perché rappresenta l’incontro tra mare e viaggio. Raviolo di genovese con miso e burro nocciola – perché è la mia radice napoletana che si innamora del Giappone. Melanzana affumicata, datteri e yogurt speziato – perché amo la complessità dolce-amara della vita.





