Costanza, nata a Piombino nel 1991, ha coltivato la passione per il disegno sin da bambina, ispirata dai quaderni e dai diari illustrati che la madre e il fratello le riempivano di colori. Dopo gli anni al Liceo Artistico di Grosseto, durante i quali i primi episodi legati al mondo del tatuaggio hanno acceso in lei curiosità e desiderio di sperimentazione, si trasferisce a Firenze per frequentare la Scuola Internazionale di Comics, immaginando un futuro da fumettista o illustratrice. Ben presto però comprende che quella strada non era la sua, e decide di partire per Londra, dove resta diversi anni tra lavori occasionali e nuove esperienze, fino all’incontro decisivo con il mondo del tatuaggio. Dopo aver inviato decine di candidature, trova il suo primo apprendistato presso lo studio Grasshopper, un percorso di un anno e mezzo fatto di dedizione, sacrifici e notti di disegno, seguito da altri tre anni e mezzo di crescita professionale, partecipando anche a convention a Manchester e Londra. In questo periodo stringe legami importanti, come quello con Silvia, collega e compagna di apprendistato, con cui mantiene tuttora uno scambio di idee ed esperienze. Tornata in Italia, ottiene nuovamente la licenza per tatuare e si stabilisce a Firenze, dove lavora al Lacrimanera Tattoo Saloon. La sua ricerca artistica, radicata nella libertà espressiva e nella voglia di raccontare storie attraverso la pelle, porta con sé il segno di un percorso fatto di determinazione, passione e continua evoluzione.
Cos’è per te l’arte?
Un modo per esprimersi, per evadere e anche connettersi con altre persone. L’arte può tirare fuori emozioni differenti da ogni individuo con cui poi ho piacere a confrontarmi.
Cosa ti ha colpita maggiormente del tuo primo approccio con il mondo del tatuaggio durante gli anni del liceo?
Penso il senso di trasgressione che trasmetteva la figura del tatuatore e il fatto che al tempo non era una professione conosciuta come oggi ed erano veramente pochi ad esercitarla, quindi ai miei occhi era un po’ come se dovessi essere “prescelto” per poter tatuare.
Quali difficoltà hai incontrato nei primi anni di apprendistato e come le hai superate?
Innanzi tutto avere a che fare con Inglesi madrelingua. Nei primi tre anni mi ero sempre approcciata a persone con un livello d’inglese simile al mio, quindi capirsi era abbastanza facile. Entrata in studio ho capito la differenza ma con un po’ di pratica si è risolto. L’ostacolo maggiore era la severità di Toni, il proprietario dello studio: la sua tecnica era quella di buttarti giù per vedere quanto riuscivi a stare a galla e se veramente volevi fare quel lavoro. Una scena che ricordo bene fu quando prese un mio disegno, lo accartocciò e mi disse “impara a disegnare”. Ho mandato giù diversi bocconi amari e tante volte ho pensato di mollare, di non essere in grado. Il sostegno di Silvia, l’altra apprendista, è stato fondamentale in quel periodo.
Che significato ha per te la libertà nel lavoro di tatuatrice rispetto alle esperienze lavorative precedenti?
Poter dire “no”. Se non mi sento in sintonia con il cliente o vedo che siamo su due linee diverse, posso rifiutarmi di fare il tatuaggio, cercando ovviamente di fargli capire che probabilmente non sono la persona adatta per realizzare la sua idea. Non dover rendere conto a nessuno sia dei miei successi come dei miei errori, è una responsabilità solo mia. E soprattutto mi gestisco la vita come voglio.
Come ha influenzato la tua crescita artistica l’esperienza internazionale a Londra?
Sicuramente ha influenzato sul modo di lavorare. Al Grasshopper, ad esempio, contava più la quantità che la qualità dei tatuaggi ed era basato molto sul walk-in. C’erano delle giornate dove facevi anche 6 tatuaggi. Il Briar Rose era un’altra cosa: i clienti venivano su appuntamento ed era sempre qualcosa di personalizzato. Questo mi ha permesso di rallentare il ritmo e dedicare ad ognuno il tempo che merita e di non farli sentire come se fossero un pezzo di carne tra le mani.
C’è un tatuaggio o un progetto che ricordi come particolarmente significativo per la tua carriera?
Ricordo a Londra una ragazza voleva cinque cuoricini piccoli, semplici, solo linea in cinque punti diversi del corpo. A me sembrò un’idea assurda. Dopo qualche giorno pubblicò un post dove diceva che aveva sofferto di bulimia e depressione, che quei cuori le ricordavano che doveva amare il suo corpo per come era e che era riuscita ad uscire da quel limbo. Mi ringraziò per averla aiutata nel suo progetto. Lì ho imparato che non importa quanto un tatuaggio sia complesso o interessante da fare ma quello che riesci a scaturire nelle persone. Se sono felici e sorridenti come lo era lei, il più del mio lavoro è fatto. Questo rende felice me.
In che modo il disegno rimane ancora oggi parte integrante del tuo processo creativo?
Il disegno mi permette di studiare al meglio un progetto e migliorarmi. Posso sperimentare, cambiare stile, provare nuovi abbinamenti. Ho completamente campo libero.
Quali differenze hai notato tra l’ambiente del tatuaggio in Inghilterra e quello in Italia?
In Italia i clienti hanno un po’ più idea di ciò che è un bel tatuaggio e uno brutto; per quanto alcuni possono essere lamentosi e puntigliosi, capiscono quando mostri loro un bel progetto . In Inghilterra, per quel che riguarda la mia esperienza, non hanno molte pretese: loro fanno più caso a quanto spendono.
Che direzione vorresti dare alla tua ricerca artistica nei prossimi anni?
Vorrei riuscire a creare un mio stile. Qualcosa di unico che le persone riescono a riconoscere subito e che esclamino “questa è la Costi!”.
Descriviti in tre colori.
Rosso, arancione, giallo.








