Nato a Lucera il 2 agosto 1963, laureato in Architettura al Politecnico di Milano, durante gli studi di architettura a Milano frequenta vari studi di artisti milanesi e un corso sullo studio del colore durante il Bauhaus; appassionato d’arte esordisce con la sua prima mostra personale al Museo Civico di Vieste (1996) a cui faranno seguito tantissime altre mostre anche all’estero. Dalla pittura alle installazioni passando per il design industriale, i lavori di Gianni Pitta prendono sostanza in un colore denso e materico che strizza l’occhio all’action painting e alla street art americana coinvolgendo l’osservatore in un dialogo intimo sulla topografia dell’anima. Una narrazione onirica fondata sulla pura immaginazione in cui trova spazio “l’uomo”, universale simbolo delle paure ma qui anche un essere molto solo in cerca di dialogo. Artista poliedrico anche nel campo del disegn industriale, è ispirato in modo morboso dall’icona del CUORE, che rappresenta in ogni forma e dimensione. Pitta ci ricorda che se il KUORE è il regno dei sentimenti, questi sono più che mutevoli ed innumerevoli nello stretto giro di una giornata.
Cos’è per te l’arte?
L’arte è un’esperienza umana che trascende la semplice creazione di oggetti o immagini: è un linguaggio universale che esplora, esprime e deforma la realtà attraverso forme, suoni, gesti e idee. Non esiste una definizione univoca, perché l’arte cambia nel tempo, si nutre del contesto e delle intenzioni di chi la osserva. Può essere comunicazione, ricerca estetica, provocazione, trascendenza, gioco o rottura. A volte è un riflesso della società, altre volte la sua negazione. In alcuni casi l’arte è un atto di resistenza. Forse la sua essenza sta proprio nella sua ambiguità: l’arte è tutto ciò che riesce a trasformare lo sguardo, a evocare qualcosa che va oltre il visibile e diventa suggestione, passione e a volte tragedia.
Cosa ti ha spinto a interessarti al colore durante il corso sul Bauhaus? Come questa esperienza ha influenzato il tuo stile artistico?
Il mio interesse per il colore si è sviluppato non solo come ricerca artistica, ma anche attraverso un percorso di formazione disciplinare ed emozionale. Il corso sul Bauhaus mi ha permesso di approfondire l’uso strutturale e psicologico del colore, influenzando la mia pratica con una maggiore consapevolezza delle sue dinamiche e potenzialità espressive. Questa esperienza ha contribuito alla mia crescita personale e artistica, affinando il mio sguardo oltre la realtà del mondo che ci circonda. L’uso del colore è condizione imprescindibile dal mio percorso creativo.
L’icona del cuore è una costante nella tua arte. Come è nata questa tua fascinazione e cosa rappresenta per te oggi?
Il cuore è il fulcro della mia ricerca artistica, un’icona che porto con me perché parla senza bisogno di parole. È un simbolo universale, potente e immediato, capace di attraversare ogni barriera culturale, il cuore non fa di differenze sociali ne culturali, piace perché evoca e racconta chi siamo. Mi ispiro alla Pop Art, alla sua capacità di trasformare immagini comuni in linguaggi di massa, di rendere l’arte accessibile, diretta, quasi inevitabile. Il cuore, per me, è questo: un segno che chiunque può riconoscere e sentire proprio, un’emozione pura che non ha bisogno di filtri. Non è solo amore, ma anche tormento, desiderio, perdita, gioia e dolore. Attraverso questa icona cerco un linguaggio popolare, condiviso, democratico. Voglio che l’arte non resti chiusa in circuiti elitari, ma che arrivi a tutti, che parli alla pancia e al cuore delle persone. Perché il cuore non mente mai: pulsa, vibra, esiste. E nell’arte, come nella vita, io voglio creare suggestioni ed il cuore è il linguaggio più sincero da trasferire agli altri.
I tuoi lavori spaziano dalla pittura alle installazioni e al design industriale. Come riesci a mantenere coerenza tra queste diverse forme d’espressione?
Nei miei lavori che spaziano dalla pittura alle installazioni e al design industriali più che la coerenza sono alla continua ricerca dell’incoerenza, come compartimenti stagni ben distinti tra loro, mi dedico alla ricerca del fascino dell’immediato, utilizzando indubbiamente quella parte di me stesso che ha voglia di raccontare il momento, quello che sento e provo nell’istante in cui creo. Ogni forma creativa è l’antidoto a se stesso, un vaccino all’assuefazione della mia anima. Attraverso il colore, i segni e le icone che utilizzo, voglio creare un ponte tra la mia visione e le emozioni dello spettatore. L’uso dell’icona del cuore, ad esempio, non è solo un simbolo, ma un veicolo di empatia: ognuno vi proietta le proprie esperienze, il proprio vissuto. La paura come l’amore o la passione in generale, diventa qualcosa di condiviso, un’emozione comune che prende significati diversi a seconda di chi osserva. Non impongo un’unica lettura, ma lascio che l’opera sia uno specchio in cui ognuno possa riconoscersi. In questo modo, le mie opere non parlano solo di me, ma anche di chi le osserva, rendendo le paure umane un’esperienza intima e personale per chi le vive attraverso l’opera stessa. Per questo affermo sempre che l’opera va subita e non compresa.
Hai esposto in molte mostre, sia in Italia che all’estero. Qual è stata per te l’esperienza più significativa e perché?
Ogni mostra a cui ho partecipazione è stata una tappa fondamentale del mio percorso artistico. Le prime esperienze erano segnate dal timore, dall’incertezza di espormi, dal dubbio su come il mio lavoro sarebbe stato accolto. Esporre significava mettermi in gioco, accettare lo sguardo degli altri sulle mie opere e, di riflesso, su di me. Col tempo, però, ogni esposizione ha lasciato un segno, permettendomi di crescere e di riconoscermi sempre di più nel mio linguaggio. Le collettive mi hanno insegnato il confronto, il dialogo con altri artisti e la consapevolezza di appartenere a un panorama più ampio. Le personali, invece, mi hanno dato la possibilità di raccontarmi senza filtri, di mostrare il mio mondo interiore nella sua interezza. Ma è stata la mostra di New York a rappresentare il punto di svolta. Esporre in un contesto internazionale di primissimo livello è stato un confronto con l’eccellenza, una prova di valore che ha scardinato le ultime insicurezze. In quella cornice, la mia quasi autostima si è consolidata. La mia necessità artistica è quella di rappresentare sempre ciò che desidero, di tradurre in immagini ciò che sento più forte. Per me, l’arte non è una questione di rimanere in uno stile unico, ma di esplorare, di muovermi fluidamente tra mondi e linguaggi diversi, e quello che chiamo incoerenza resta un tratto distintivo della mia attività artistica. Parto dalla Pop Art, che mi ha insegnato la potenza dell’immagine popolare, immediata, capace di parlare a tutti. Ma poi il mio sguardo si è spostato verso l’arte informale, dove la materia e il gesto diventano protagonisti, e la forma si dissolve in un’espressione più libera e viscerale. È lì che ho trovato un altro modo di fare arte, un mondo che adoro. E poi c’è l’astratto, che mi permette di andare oltre la rappresentazione concreta, di esplorare il significato del colore, della forma e dello spazio senza doverli ancorare a oggetti riconoscibili. Ogni passaggio tra questi stili è una necessità per me: non voglio restare fermo, ma voglio sentire ogni volta la libertà di esprimere ciò che ho dentro.
Quanto il luogo in cui sei nato, Lucera, e quello in cui ti sei formato, Milano, influenzano il tuo lavoro artistico?
Nella città in cui sono nato, Lucera, ho imparato a leggere la bellezza delle cose semplici, a percepire quelle atmosfere fatte di dettagli che raccontano la semplicità dei luoghi e delle persone. La sua poesia è un richiamo a ciò che è radicato e profondo, ciò che mi accompagna da sempre. Lucera è la soluzione alle mie ansie da prestazione artistica, dove i contatti umani trascendono da qualsiasi interesse personale. Milano, la città in cui mi sono formato ha avuto un impatto altrettanto determinante. È la culla degli scambi culturali, il luogo dove ho imparato a relazionarmi, a confrontarmi con gli altri, a vedere l’arte non solo come espressione personale, ma come dialogo. Qui ho scoperto che l’arte può nascere dal contatto umano, dall’incontro con altre realtà, dal confronto con esperienze diverse. È qui che la mia ricerca si è arricchita, che il mio lavoro ha preso una forma più matura, più consapevole. Le relazioni, le storie che ho condiviso e vissuto sono entrate a far parte del mio linguaggio artistico, facendolo evolvere in una direzione più complessa e aperta. Milano è l’incubatore ideale di qualsiasi esperienza formativa e anche artistica.
Il tuo utilizzo del colore è descritto come denso e materico. Cosa vuoi comunicare attraverso questa scelta?
Utilizzo il colore in forma materica, mi piace sentire la materia che mi sporca le mani, la sua densità è certezza di un segno persistente, liberatorio ed incisivo. La materia è il legante tra il mondo e ciò che lasceremo al mondo stesso in futuro.
Nelle tue installazioni come riesci a coinvolgere l’osservatore in quel “dialogo intimo sulla topografia dell’anima”?
Ogni installazione è un racconto aperto, un’interpretazione visiva delle emozioni, delle paure, dei desideri che tutti noi portiamo dentro. Non voglio che l’osservatore si limiti a guardare: voglio che si riconosca, che trovi qualcosa di se stesso nelle forme, nei colori, nello spazio e nei vuoti da riempire. È un invito a entrare nel profondo, a fare un viaggio diverso e unico, ma a volte anche la memoria da recuperare per non dimenticare. Ogni installazione diventa un’interazione, un dialogo che va oltre la semplice percezione visiva. L’arte non è più solo mia, ma anche di chi la osserva, che porta con sé la propria storia, a volte è anche qualcosa che ti porta a dire, “questo l’avrei fatto anch’io”.
Quali sono i progetti futuri su cui stai lavorando? Vedremo evoluzioni nel tuo stile o nuove sperimentazioni?
Di progetti futuri ne ho tanti, alcuni nostalgici, come recuperare la mia passione per il paesaggio informale, ma anche quello di assecondare la passione per la pop art, e magari dedicarmi alla creazione di oggetti di design con uno sguardo mal mondo della moda. La mia vena artistica schizzofrenica ed incoerente, mi porta a dire che non riuscirei mai a scegliere solo tre colori per definirmi, Il mio desiderio non è quello di “scegliere”, ma di vivere tutti i colori senza schemi predefiniti. Tre colori possono dialogare tra di loro ma al tempo stesso essere rivali e annullarsi l’uno con l’altro. Adoro indifferentemente sia i colori caldi che quelli definiti freddi, ma anche una combinazione tra di loro, senza limiti ne recinti. L’incoerenza ci libera dai dogmi, ci permette di essere più autentici e di rispondere in modo originale alla realtà. È nella sua natura imprevedibile che risiede la sua potenza: non avere un percorso lineare da seguire ci rende capaci di reinventarci continuamente, di abbracciare il non detto, l’invisibile, di esplorare tutte le sfumature della nostra esistenza senza paura di apparire disconnessi da ciò che ci circonda.






