LUNA MISCUGLIO

LUNA MISCUGLIO

Luna, nata a Galatina nel 1984, è un’artista visiva che unisce tecnica e introspezione in una ricerca coerente e profonda. Laureata con il massimo dei voti all’Accademia di Belle Arti di Brera, ha iniziato sin da subito a esporre le sue opere in Italia e all’estero, distinguendosi per la capacità di attraversare linguaggi diversi con sensibilità e rigore. Nel 2011, grazie a Vittorio Sgarbi, è stata selezionata per il Padiglione Italia della 54ª Biennale di Venezia, dove ha presentato due opere incentrate sull’uso delle radiografie, indagando i confini tra visibile e invisibile, corpo e memoria. Parallelamente alla produzione digitale, ha sviluppato una pratica pittorica più tradizionale, approfondendo temi come la malattia, la morte, la fisicità e l’apparenza, in un continuo dialogo tra interiorità e superficie. Negli anni ha preso parte a numerosi progetti espositivi, tra cui iniziative promosse dalla Regione Puglia e fiere nazionali come Rho Fiera Milano. Il suo percorso include anche quattro mostre personali, testimonianza di un lavoro in costante evoluzione, capace di muoversi tra sperimentazione e riflessione esistenziale.

Cos’è per te l’arte?

L’arte è una salvezza psicologica. È una sorta di complesso ossessivo-compulsivo che mi permette di sopravvivere felicemente. La mia produzione è intensa, quasi compulsiva: per questo lavoro raramente su un dipinto per più di cinque ore. A volte cancello, rifaccio, ricomincio. È un’urgenza vitale.

Come nasce l’interesse per il contrasto tra fisicità e interiorità, e come si traduce nella tua pratica pittorica?

Tutto è nato da esperienze personali legate alla malattia. In adolescenza ho avuto problemi medici che mi hanno costretta a periodi di ospedalizzazione. Più tardi, la malattia di mio suocero e, soprattutto, quella di mio padre — scomparso nel 2024 per un cancro ai polmoni — hanno reso questo tema centrale. Ho visto il corpo essere lentamente divorato da ciò che aveva dentro. La mia arte cerca di guardare sotto la pelle, scoprire la vulnerabilità che ci rende tutti uguali, al di là dell’apparenza.

Cosa ti ha spinto a utilizzare le radiografie come mezzo espressivo?

Una delle mie amiche più care è affetta da Osteogenesi Imperfetta, una malattia rara che rende le ossa estremamente fragili. Ho iniziato a usare le sue radiografie, che poi dipingo e trasfiguro, per dare visibilità a questa condizione. Collaboro con ASITOI (Associazione Italiana Osteogenesi Imperfetta) e ho anche realizzato una personale a Galliate il cui ricavato è stato destinato alla raccolta fondi per la ricerca. Tutto è partito dalla Biennale, che per la prima volta mi ha dato spazio per affrontare questi temi.

Che ruolo ha avuto la tua formazione all’Accademia di Brera?

Brera mi ha dato gli strumenti per conoscere e, in parte, superare la pittura classica. Ma non l’ho mai abbandonata davvero. Nelle mie mostre, spesso è al centro di performance che si generano nel momento, dal contesto, dalle vibrazioni del luogo.

C’è un filo conduttore nelle tue mostre personali?

Sì, l’urgenza di andare oltre l’apparenza. La mia prima mostra personale a Milano (Blancheart) ruotava intorno a mani, volti coperti, e le zampe di uno scimpanzé, a ricordare la nostra fisicità e origine animale. A Firenze ho esposto solo occhi di animali che scrutavano lo spettatore. Col tempo ho affinato la mia visione, ora più esplicita: non cerco più di attenuare ciò che sento. Non mi censuro.

Come vivi il rapporto con il pubblico?

Per me è fondamentale. Cerco sempre un dialogo, una partecipazione attiva. In una collettiva sul tema del viaggio, ho coinvolto i visitatori chiedendo loro di fare un nodo a un gomitolo rosso che passava tra le mani di tutti. Nella mostra sugli occhi, i bambini delle scuole primarie dovevano indovinare a quale animale appartenessero. Il pubblico, anche solo con uno sguardo o un gesto, entra a far parte dell’opera.

Cosa cerchi nei progetti collettivi o istituzionali?

Oggi cerco solo una cosa: la verità emotiva. Raccontare ciò che sento, senza filtri. Vorrei anche raccogliere fondi per la ricerca sul cancro, ma solo attraverso opere autentiche, nate da ciò che vivo. Mi piacerebbe che anche il pubblico potesse “urlare” contro questa malattia, come faccio io con i miei lavori. Sto ancora cercando il modo giusto per proporlo.

Come affronti il passaggio tra tecniche diverse?

Ogni soggetto richiede la sua tecnica. Per una mostra sulla malattia mentale ho fotografato una casa piena di scritte di un uomo che aveva vissuto a lungo in manicomio. Quelle immagini dovevano solo essere documentate. Non tutto va dipinto: alcune cose chiedono altri linguaggi. Quella serie mi ha fatto vincere un premio fotografico nel concorso “Peopleinmind”.

Qual è oggi la tua urgenza creativa?

Raccontare il lutto, attraversarlo, sopravvivere. Penso che perderò anche gli ultimi freni inibitori. Non posso fare altro che continuare a esprimere quello che mi abita dentro.

Descriviti in tre colori.

È difficile… ma forse direi i colori della notte, della terra e delle profondità del mare. Credo che lì, in quelle zone silenziose e misteriose, ci siano i miei veri colori.

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