PIERO MELI

PIERO MELI

Piero, nato a Bari nel 1980, è uno scrittore e fotografo che intreccia parola e immagine per raccontare la Puglia in una dimensione intima, autentica e lontana dagli stereotipi. Il suo lavoro esplora la memoria dei luoghi e le sfumature emotive del quotidiano, con uno sguardo che unisce poesia e realismo visivo. Autore del libro In Puglia. Da Alda Merini a Mario Desiati (Giulio Perrone Editore, collana “Passaggi di dogana”), ha esposto le sue opere fotografiche in mostre personali e collettive in Italia e all’estero, in città come Bari, Firenze, Milano, Roma e Tokyo. Nel 2022 il progetto Through the Glass è stato ospitato dalla galleria Roonee 247 Fine Arts di Tokyo, mentre alcune sue opere sono state selezionate per eventi di rilievo come la Venice Art Fair di Forlì e il Premio Internazionale Michelangelo a Firenze. Nel 2024 la fotografia Custode della luce è stata inclusa nell’asta benefica del collettivo Home Of Art. Nello stesso anno ha curato per Secop Edizioni la nuova edizione del volume Invito a Trani di Benedetto Ronchi, rinnovando le immagini originarie con oltre 240 scatti inediti dedicati alla città. Con la mostra Puglia nascosta: silenzi e visioni, Meli propone una narrazione visiva che svela una regione intima, fatta di silenzi, tracce e riflessi, restituendo un ritratto sincero e sospeso della sua terra. Collabora con le riviste “Correlazioni Universali”, “Vita”, “Amazing Puglia” e “AMA Bari”, firmando racconti e reportage fotografici, e con la rivista nazionale di fotografia ShotsToTell con progetti dedicati alla città di Bari. Nel 2022 ha pubblicato AmoreAmaro: racconti tratti da storie (quasi) vere per Secop Edizioni e ha partecipato a oltre venti antologie di racconti con case editrici italiane. Nel luglio 2025 è uscito il suo ultimo libro, Piccoli miracoli sotto la pioggia (Giulio Perrone Editore), che conferma la sua capacità di coniugare scrittura e immagine in un linguaggio sensibile e personale.

Cos’è per te l’arte?

L’arte, per me, è la forma più sincera di resistenza. È la possibilità di dare senso al caos, di trovare una direzione anche quando tutto sembra smarrirsi. Non è mai decorazione o rifugio: è un attraversamento. Ogni volta che scrivo o fotografo, ho la sensazione di stare cercando qualcosa che non si lascia afferrare del tutto, un’emozione, una verità, un respiro. L’arte è un modo per restare vivi, per continuare a guardare il mondo con occhi nuovi anche dopo averlo visto mille volte.

Cosa ti spinge a raccontare la Puglia attraverso la fotografia e la scrittura?

La Puglia è la mia origine e la mia dolce ossessione. È una terra che sa essere luminosa e spietata, accogliente e ruvida nello stesso momento. Scrivere e fotografarla è il mio modo di restituirle complessità, di toglierle la patina da cartolina per mostrarne l’anima vera, fatta di silenzi, ombre, pietre e vento. Nei miei progetti cerco sempre quel punto in cui la bellezza incontra l’imperfezione. È lì che nascono i “piccoli miracoli”: quando la realtà smette di voler piacere e inizia, semplicemente, a essere.

In che modo la tua formazione o le tue esperienze personali hanno influenzato il tuo sguardo artistico?

Arrivo da un percorso tecnico, e questo mi ha insegnato la precisione dello sguardo, la pazienza dell’osservazione. Ma poi la vita, con i suoi errori, gli incontri e le ferite, mi ha insegnato tutto il resto: l’empatia, la curiosità, la necessità di raccontare. Nel mio lavoro di perito, ad esempio, guardo i segni che restano dopo un evento, e forse da lì nasce la mia attenzione per le tracce, per ciò che sopravvive. In fondo, il mio sguardo è sempre un tentativo di riparazione: trasformare le crepe in linguaggio.

Come nasce l’idea di un progetto fotografico come Through the Glass o Puglia nascosta?

Nascono sempre da un’urgenza, mai da un piano prestabilito. Through the Glass è nato in un periodo di chiusura, quando avevo bisogno di continuare a osservare il mondo anche da dietro un vetro. Era un modo per restare connesso alla realtà, per dire: “ci sono ancora”. Puglia nascosta, invece, è un atto d’amore e ribellione insieme: volevo raccontare la mia terra oltre gli stereotipi, mostrare i luoghi dimenticati, quelli che non finiscono nelle brochure ma custodiscono un’anima.

Qual è il rapporto tra parola e immagine nel tuo processo creativo?

Parola e immagine si rincorrono continuamente. A volte nasce prima la fotografia, e da quella arriva il racconto; altre volte è una frase a generare l’immagine. In Piccoli miracoli sotto la pioggia questa fusione è diventata evidente: la scrittura si è fatta fotografia, e la fotografia si è trasformata in parola. Per me non esiste una gerarchia: sono due linguaggi che si completano, due modi diversi di dire la stessa verità.

C’è una fotografia o un racconto a cui sei particolarmente legato e perché?

Sì. Una fotografia scattata a Trani, un giorno di luce incerta, quando il mare sembrava respirare con la città. È stata condivisa da Vogue Italia, ma non è questo il motivo per cui ci sono legato. In quella foto c’è il mio sguardo: il bisogno di bellezza, ma anche il senso di solitudine che accompagna ogni ricerca autentica. È un’immagine che parla di sospensione, di attesa. Che poi sono temi che ritornano spesso anche nei miei racconti. Tra le mie pagine, invece, resto legato al prologo di Piccoli miracoli sotto la pioggia: una voce sospesa tra la vita e la morte, che cerca di ritrovare la propria direzione. È lì che, credo, c’è tutta la mia poetica.

Quanto conta per te la dimensione del viaggio, fisico o interiore, nei tuoi lavori?

È fondamentale. Ogni mio progetto nasce da un viaggio, ma non sempre da uno spostamento fisico. Il viaggio più profondo è quello dentro sé stessi: attraversare la propria fragilità, la nostalgia, il desiderio di rinascita. Milano, per esempio, in Piccoli miracoli sotto la pioggia non è solo uno sfondo, ma un luogo dell’anima: una città che cambia insieme ai personaggi, che diventa specchio dei loro smarrimenti e delle loro possibilità.

Come vivi il confronto con il pubblico nelle mostre e nelle presentazioni dei tuoi libri?

Come un dialogo avvincente e necessario. È uno scambio.  Mi piace l’idea che ogni lettore o visitatore aggiunga un tassello alla mia visione, che ogni sguardo completi o trasformi ciò che ho creato. Quando qualcuno mi dice che un racconto o una fotografia gli ha fatto venire voglia di guardare la propria città con occhi diversi, sento che il miracolo è avvenuto. L’arte non esiste finché non incontra qualcuno disposto a sentirla.

Qual è l’aspetto della Puglia che più ami rappresentare e quello che invece senti ancora difficile da raccontare?

Amo raccontare i silenzi, i margini, le zone d’ombra. La Puglia che vive lontano dal rumore, quella che resiste nel quotidiano, negli sguardi discreti. Ciò che trovo difficile da raccontare, invece, è la frenesia con cui la mia terra cambia pelle: la perdita di identità, la corsa a sembrare altro. È un tema che mi tocca profondamente, e che forse affronterò presto in un nuovo progetto.

Nel tuo percorso si intrecciano editoria e fotografia: come riesci a mantenere equilibrio tra questi due linguaggi?

Non cerco di tenerli in equilibrio, lascio che si contaminino. Scrivere e fotografare sono gesti diversi ma con la stessa radice: la meraviglia per ciò che accade. A volte una foto diventa un racconto; altre volte una frase mi spinge a scattare. Credo che la mia cifra sia proprio questa contaminazione continua: far dialogare parola e immagine finché non diventano la stessa cosa.

Hai già in mente un nuovo progetto o tema su cui vorresti lavorare nei prossimi anni?

Sì, diversi. Uno narrativo, ambientato ancora in Puglia, dove la protagonista è una donna che riscopre sé stessa attraverso i luoghi della memoria. E un nuovo progetto fotografico che vorrei dedicare alle “soglie”: gli spazi di passaggio, i confini tra dentro e fuori, luce e ombra, visibile e invisibile. Mi affascina ciò che non è definito, ciò che sta per accadere. L’attimo prima del miracolo.

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