CARLO VANONI – L’ARTE QUANDO BRUCIA

CARLO VANONI – L’ARTE QUANDO BRUCIA

I cinque decenni che hanno cambiato la bellezza. Quando ho iniziato a leggere L’arte quando brucia di Carlo Vanoni, non immaginavo che mi avrebbe trascinata così profondamente in un vortice emotivo e intellettuale, una specie di rito iniziatico in cui l’arte smette di essere oggetto da contemplare e diventa materia incandescente che ti investe, ti ustiona, ti cambia. Non è solo un saggio, né una semplice biografia corale: è un varco. Un passaggio in cinque atti, ognuno incarnato da un artista che ha bruciato sé stesso nella propria opera: Jackson Pollock, Mario Schifano, Joseph Beuys, Francesca Alinovi e Damien Hirst. Vanoni non li racconta con il distacco del critico o con la reverenza dello storico dell’arte, ma con la voce di chi li ha abitati, come se ogni parola provenisse direttamente dalle crepe lasciate dalla loro intensità. L’arte, in queste pagine, non è una sequenza di movimenti e cataloghi, ma una forza organica che consuma, seduce, distrugge. “Non sono gli artisti a fare l’arte. È l’arte che prende gli artisti e li trascina via.” È una frase che mi ha trafitta, e che forse riassume l’intera essenza del libro. Vanoni non ci offre la cronaca, ma ci getta nella stanza in cui tutto accade. Ci fa sentire l’odore acre del legno impregnato di alcool nel granaio di Pollock, ci lascia camminare tra le droghe e le immagini sovraccariche di Mario Schifano nella Roma febbricitante degli anni Settanta, ci introduce nel teatro concettuale di Joseph Beuys dove ogni gesto è una ferita simbolica. E poi ci trascina con struggente delicatezza nella stanza insanguinata di Francesca Alinovi, dove l’arte è carne, desiderio, abisso. Qui Vanoni rallenta, quasi volesse porgere rispetto, come se sapesse di trovarsi davanti a un altare. “Lei non voleva essere spettatrice dell’arte, ma il suo stesso combustibile.” L’arte, per Alinovi, era un sacrificio in diretta. E infine, come un’onda finale che porta con sé tutte le tracce del fuoco precedente, arriva Damien Hirst, colui che ha trasformato il bruciare in strategia, il dolore in operazione, il corpo in reliquia pop. Vanoni riesce in un’impresa quasi impossibile: tenere insieme l’urgenza del vissuto con l’eleganza della riflessione. Non c’è una frase che non vibri, non un aneddoto che non si incastri perfettamente nel disegno più grande. E poi c’è Leo Castelli, che compare come un demiurgo silenzioso. È nella sua galleria dell’Upper East Side che il gesto informale si fa rivoluzione, che Pollock si fa icona. Castelli non cercava artisti da comprendere, ma visioni da annusare: sapeva che l’arte non si spiega, si percepisce. Anche quando sa di benzina e sangue. Ecco, L’arte quando brucia è questo: un libro che non si legge, si attraversa. Non consola, accende. E se accetti di entrare, devi sapere che non ne uscirai illeso. Perché l’arte, quando brucia, ti lascia addosso il suo odore. Il mio statement? Lo prendo proprio da Vanoni, perché non saprei dirlo meglio: “L’arte quando brucia non è per chi cerca risposte, ma per chi sa reggere la fiamma delle domande.” Io, quella fiamma, ho scelto di reggerla. E tu?

Titolo completo: L’arte quando brucia. I cinque decenni che hanno cambiato la bellezza
Autore: Carlo Vanoni
Editore: Solferino
Collana: Saggi
Anno di pubblicazione: 2024
Pagine: 192
ISBN: 978-88-282-1572-1

di Charlotte Madeleine Castelli per ArtCast, dove l’arte si racconta come brucia: viva, feroce, reale.

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