FRANCESCA CALLIPARI

FRANCESCA CALLIPARI

Francesca, nata nel 1987 in provincia di Reggio Calabria, è una storica e critica d’arte, curatrice, art advisor e perito d’arte con un percorso ricco e sfaccettato. La sua attività si estende anche alla scrittura, con pubblicazioni di saggi e romanzi, e all’insegnamento in corsi dedicati alla curatela di eventi artistici. Ha curato numerose mostre in Italia e all’estero e collabora come editorialista per diverse riviste di settore, spaziando tra testate online e cartacee. Nel corso della sua carriera ha maturato esperienze significative all’interno di importanti istituzioni museali, come i Musei Vaticani, Palazzo Strozzi, il Duomo di Firenze, la Basilica di Santa Croce e la Pinacoteca di Brera. Appassionata sostenitrice del potere comunicativo e trasformativo dell’arte, progetta esposizioni che mirano non solo alla promozione di nuovi talenti, ma anche a veicolare messaggi culturali e sociali. Francesca coltiva anche l’amore per il canto e per la scrittura. Ha ricevuto riconoscimenti come il Premio Miglior Opera Prima per il romanzo “L’odiato amore” (2014) e ha pubblicato il saggio “L’Umana Fragilità” (2023). La sua formazione, culminata con una laurea magistrale in Storia dell’Arte a Firenze e ulteriori corsi specialistici in restauro, perizie e curatela, testimonia un impegno costante nella ricerca e nella valorizzazione artistica. Nel 2020 ha fondato “I Love Italy TV Gallery” e “I Love Italy News – Arte e Cultura”, piattaforme digitali per la promozione dell’arte e dell’informazione culturale. È inoltre parte di giurie e commissioni internazionali, tra cui quella per l’Atlante dell’Arte Contemporanea De Agostini e la Florence Biennale. Attualmente è docente presso l’Accademia degli Eventi e il Museo Mas di Milano, dove continua a formare nuove generazioni di curatori con un approccio innovativo e multidisciplinare.

Cos’è per te l’arte?

È un linguaggio universale che parla direttamente all’anima, un potente strumento di connessione tra le persone. Credo che solo attraverso l’arte possiamo davvero entrare in contatto con noi stessi, esplorare il nostro mondo interiore e, al tempo stesso, comprendere più a fondo ciò che ci circonda. Inoltre, lo vedo spesso anche nelle storie degli artisti con cui collaboro, l’arte è spesso una salvezza, un elemento di riscatto. È un mezzo che permette a tutti di esprimersi, di raccontare la propria verità, di far sentire la propria voce. E in fondo, è proprio questo il suo potere: dare forma all’invisibile, rendere visibile l’essenziale.

Come definiresti oggi il ruolo di un curatore, alla luce dei cambiamenti del sistema dell’arte contemporanea?

Oggi il curatore è un ponte: tra l’artista, l’opera e il pubblico, ma anche tra le istituzioni e il territorio. Non è più – o non solo – colui che organizza, ma chi ascolta, interpreta e traduce. In un sistema dell’arte sempre più fluido e globalizzato, il suo ruolo è generare senso, custodire l’autenticità, creare contesti che non siano semplici contenitori, ma narrazioni vive e significative. Nel mio caso, poi, lavorando spesso con artisti emergenti, questo ruolo si amplia ulteriormente: mi trovo ad essere anche motivatrice nei momenti di crisi che inevitabilmente si presentano lungo il percorso creativo; manager nella gestione delle vendite e delle opportunità; consulente strategico, capace di proporre alternative alle mostre tradizionali, offrendo suggerimenti legati al marketing e alla comunicazione. Essere curatore per me significa accompagnare. Essere presenti, sostenere, valorizzare. Significa credere in un potenziale, spesso ancora inespresso, e lavorare perché trovi la sua forma, il suo spazio, la sua voce.

Quando scegli di seguire o promuovere un artista, quali sono gli elementi imprescindibili che cerchi nella sua ricerca?

Quando seleziono gli artisti per i miei eventi, cerco talento e anima. La sola abilità tecnica non basta: se un’opera è priva di contenuto, emozione o visione, difficilmente trova spazio nei miei progetti. Cerco coerenza, urgenza e autenticità. Mi coinvolge chi non insegue le mode, ma intraprende un percorso personale, spesso faticoso e solitario, alla scoperta del proprio mondo interiore. La ricerca deve essere solida, consapevole, capace di dialogare con l’esterno, ma anche di custodire un nucleo resistente e poetico. E poi, soprattutto, ricerco un’espressione nata da un bisogno reale, profondo e necessario.

Quanto conta, secondo te, la narrazione critica nella valorizzazione di un’opera?

Conta moltissimo. La narrazione critica non deve imporre significati, ma farli affiorare. È come una mappa: uno strumento per orientarsi, per aprire nuove prospettive. E’ quell’elemento incisivo che invita a sostare, a entrare nell’opera con maggiore consapevolezza. E in un tempo come il nostro, in cui tutto scorre veloce e spesso ci si ferma solo alla superficie, il racconto critico assume un ruolo fondamentale: è l’amo che catturare l’osservatore, guidandolo ad una visione più attenta, lenta e profonda. Una visione che passa dagli occhi, ma che deve inevitabilmente arrivare al cuore.

In un’epoca in cui tutto è comunicazione visiva, come può l’arte distinguersi senza perdersi nella sovraesposizione?

Paradossalmente, tornando all’essenziale. L’arte deve sapersi sottrarre, ogni tanto, al rumore visivo. Deve scegliere di essere spazio di pausa, non di accumulo. Non è la quantità di immagini a fare la differenza, così come non lo è il numero di mostre a cui un artista partecipa. Ciò che conta è la qualità dello sguardo che genera opere ed esperienze autentiche. Le opere che lasciano veramente un segno sono quelle che nascono da un bisogno reale e profondo, non da costruzioni guidate dal marketing o da logiche di mercato.

C’è un progetto espositivo che ti ha particolarmente segnata o che rappresenta una svolta nel tuo percorso?

Ogni esperienza ha rappresentato per me un tassello fondamentale, permettendomi di comprendere sempre meglio le sfumature di questo mestiere. Tuttavia, il progetto che considero una vera e propria svolta è senza dubbio “I Love Italy – Mostra Itinerante Internazionale”. Nato con l’obiettivo di dare voce agli artisti italiani emergenti e di promuoverli sia in Italia che all’estero, il progetto ha preso forma nel tempo fino a diventare un strumento aggiuntivo di valorizzazione e visibilità per i miei artisti. Con un tour espositivo ricco e articolato, che ha portato gli artisti a partecipare a collettive e fiere d’arte di grande rilievo (da Milano a Roma, Venezia, Firenze, Torino, Bologna, al Carrousel du Louvre a Parigi e Barcellona), questo progetto si è distinto sempre per la qualità delle proposte artistiche e per le prestigiose location che ci hanno ospitato. Dal progetto espositivo, poi — in piena pandemia da Covid-19 — è nata anche I Love Italy TV, creata insieme all’artista Giampiero Murgia. Un canale interamente dedicato all’arte contemporanea, che è diventato fin da subito uno strumento fondamentale per sostenere e promuovere gli artisti in un momento storico delicatissimo. Durante il lockdown, quando l’arte sembrava destinata al silenzio e molti artisti hanno vissuto momenti di profonda crisi creativa, I Love Italy TV è stato un faro: ha offerto visibilità, spazi virtuali di esposizione, occasioni di dialogo e confronto. Un segnale di vicinanza e di speranza, nato dal desiderio di non fermarsi, di continuare a credere nella forza comunicativa e salvifica dell’arte.

In che modo la tua formazione accademica ha influenzato il tuo approccio alla scrittura e alla curatela?

La mia formazione ha dato struttura alla mia sensibilità. Mi ha insegnato a osservare con maggiore consapevolezza, affinando il mio sguardo e fornendomi strumenti per comprendere anche forme d’arte che inizialmente sentivo lontane. Ma, soprattutto, mi ha trasmesso una lezione fondamentale: la conoscenza è responsabilità. Scrivere di arte o costruire una mostra significa assumersi il compito di raccontare, di entrare in relazione profonda con le opere e con chi le ha generate. Non ci si può improvvisare critici d’arte: non basta saper descrivere ciò che si vede. Serve empatia, capacità di ascolto visivo, sensibilità nel cogliere ciò che l’artista esprime, anche senza conoscere la sua storia personale. Mi capita spesso che gli artisti si riconoscano profondamente nei miei testi critici, ed è sempre un’emozione forte. Credo che ogni opera custodisca frammenti autentici di vita e quando la osservo è come se riuscissi a percepire l’anima di chi l’ha creata.

Lavorando sia in ambito museale che indipendente, come cambia il tuo approccio alla progettazione di una mostra?

Nel contesto museale il lavoro è spesso più istituzionale, con vincoli e protocolli che richiedono una maggiore mediazione. Nel lavoro indipendente c’è più libertà, ma anche più rischio. Cambia il linguaggio, cambiano i ritmi, ma ciò che resta invariato è la volontà di creare esperienze significative. In entrambi i casi, il mio obiettivo è sempre quello di generare un incontro autentico tra opera e spettatore.

L’arte può ancora essere uno strumento di trasformazione sociale?

Assolutamente sì. I miei eventi parlano per me: sono pensati non solo come spazi espositivi, ma come luoghi vivi, dove ogni opera diventa occasione di incontro, riflessione e consapevolezza. Ho dedicato mostre a temi attuali e urgenti – la guerra, la violenza sulle donne, il rapporto tra uomo e natura – perché sono convinta che oggi, più che mai, l’arte debba rivendicare il suo potere trasformativo. Non intendo l’arte come strumento di propaganda, ma come spazio di immaginazione, ascolto e dialogo. Ogni quadro, fotografia o scultura racconta storie di vita, di resistenza, di emozioni forti e complesse. Ed è proprio da lì che parte un invito: a non restare fermi, a sentirci coinvolti, a diventare parte attiva di un cambiamento.

Come ti rapporti con il tema della “valutazione” economica dell’arte? È una questione più tecnica o anche etica?

È una questione tecnica ma inevitabilmente etica. Il valore economico non può prescindere dal valore culturale e simbolico. È giusto che un artista sia riconosciuto anche economicamente, ma serve una maggiore trasparenza e consapevolezza nel sistema. Il mio ruolo, in questo senso, è quello di difendere il valore dell’opera oltre il mercato, senza ignorarne però le dinamiche.

Tra saggio, romanzo e critica: quale forma narrativa ti permette di esprimere al meglio la tua visione dell’arte?

La critica è la forma che più mi appartiene, fa parte del mio quotidiano ed è il mio modo di dialogare con l’arte. Amo, però, anche il saggio breve, che mi consente di affrontare temi complessi in modo accessibile, come nel caso di “L’Umana fragilità”, un’analisi storico-artistica e socio-antropologica sul rapporto dell’uomo con la morte. Il romanzo, invece, rappresenta la mia parte più intima. “L’odiato amore”, libro che ho pubblicato nel 2014, affronta il tema della violenza psicologica e fisica. Pur essendo un romanzo è comunque un racconto nato da frammenti di storie vere, da racconti di donne incontrate nel tempo e da notizie di cronaca che mi hanno ispirata a immaginare una storia che, pur non essendo reale, risulta profondamente vissuta.

Descriviti in tre colori.

Blu oltremare, il colore che per me incarna il legame profondo tra arte e anima. Rosso carminio, come la passione che nutre ogni mio progetto. Bianco, il simbolo del mio bisogno di ripartire sempre da una pagina pulita, aperta a nuove possibilità.

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